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Troppi fronti per l'America, che deve concentrarsi sul regime cinese

Proseguono le trattative per l’Ucraina ma Trump vuole chiudere

Da quando il presidente statunitense Donald Trump ha presentato, lo scorso novembre, il suo piano di pace per porre fine alla guerra tra Russia e Ucraina, i colloqui fra Washington, Mosca e Kiev proseguono senza interruzione, ma appare ormai chiaro quanto Trump abbia "fretta" di chiudere il dossier Ucraina al più presto

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Volodymyr Zelensky e Donald Trump

Photo: foto archivio REUTERS/Al Drago.

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Tempo di lettura: 8 Min.

Da quando il presidente statunitense Donald Trump ha presentato, lo scorso novembre, il suo piano di pace per porre fine alla guerra tra Russia e Ucraina, i colloqui fra Washington, Mosca e Kiev proseguono senza interruzione.
Il testo iniziale in ventotto punti realizzato da Steve Witkoff e Marco Rubio tocca tutte le questioni rilevanti, dai confini e gli aspetti militari ai rapporti internazionali futuri, e comprende i finanziamenti per la ricostruzione postbellica e alla situazione politica interna ucraina. I primi tre punti riaffermano la sovranità dell’Ucraina, prevedono un accordo di non aggressione tra Russia, Ucraina ed Europa: la Russia si impegna a non invadere le nazioni confinanti e la Nato a non ammettere l’Ucraina. Il piano – questa è la parte più spinosa – contempla la cessione alla Russia delle regioni di Crimea, Luhansk e Donetsk, mentre Kherson e Zaporizhzhia verrebbero congelate sulla linea di fronte attuale, riconoscendo di fatto una situazione di controllo russo.
L’Ucraina dovrebbe poi inserire nella propria Costituzione l’impegno a non aderire alla Nato, e l’Alleanza atlantica introdurrebbe una clausola che escluda Kiev per sempre. La prospettiva di entrare nell’Unione europea resterebbe invece aperta, qualora l’Ucraina ne soddisfacesse i criteri di ingresso. Il piano iniziale, inoltre, fissava a seicentomila unità il limite massimo delle forze armate ucraine, consentendo nel contempo alla Russia di rientrare nel G8.
Dopo la presentazione della bozza, avvenuta il 20 novembre, e le successive revisioni da parte ucraina, si sono svolti colloqui bilaterali tra Washington e Mosca, e tra Washington e Kiev, ma finora non si è registrato alcun incontro diretto fra russi e ucraini. Le delegazioni americana e ucraina si sono riunite prima a Ginevra e poi in Florida nel mese di dicembre. In entrambe le occasioni non era presente il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Parallelamente, il 2 dicembre a Mosca si è tenuta una riunione tra rappresentanti statunitensi e russi alla quale ha partecipato anche Vladimir Putin.
Zar Vladimir ha definito il colloquio con Witkoff e con Jared Kushner «molto utile», pur riconoscendo che «raggiungere un consenso non è impresa semplice». L’incontro al Cremlino, durato cinque ore, ha permesso alla Russia di esaminare uno per uno tutti i ventotto punti del piano elaborato dagli Stati Uniti. Secondo Putin, le basi del progetto riprendono le intese raggiunte con Trump durante il vertice di agosto in Alaska, ma la questione territoriale resta il nodo principale. Parlando del Donbass, Putin – che continua a dimostrare di non voler arretrare di un millimetro rispetto alle proprie pretese sul territorio ucraino – ha ricordato che Mosca aveva “proposto” a Kiev di ritirare le proprie truppe dalla regione prima dell’invasione, sostenendo che questo avrebbe evitato la guerra, e quindi incolpando Kiev dell’invasione russa.
L’annuncio del piano ha suscitato inizialmente una “rivolta” da parte di diversi Stati europei. Il ministro degli Esteri francese Jean-Noël Barrot, ad esempio, ha osservato: «gli ucraini vogliono una pace giusta […] che non possa essere rimessa in discussione da future aggressioni» ma che non si traduca in «una capitolazione». Successivamente, Washington e Kiev hanno comunicato di aver aggiornato e rielaborato la cornice negoziale per porre fine al conflitto, nel corso dei colloqui di Ginevra.
Il 5 e 6 dicembre, nuovi incontri si sono svolti a Miami subito dopo la missione moscovita di Witkoff e Kushner. Durante le discussioni, Witkoff ha precisato che i progressi reali verso la pace dipendono soprattutto «dalla disponibilità della Russia a impegnarsi» a creare le condizioni affinché si raggiunga, una volta per tutte, una «distensione».
Ma resta irrisolta la questione territoriale. Il ministro della Difesa ucraino Rustem Umerov, a capo della delegazione di Kiev, ha poi annunciato che l’Ucraina avrebbe sottoposto agli Stati Uniti la sua versione aggiornata del piano di pace. Umerov ha spiegato che l’attuale proposta, ridotta a venti punti, si distingue dalle precedenti poiché «sono stati eliminati gli elementi evidentemente contrari agli interessi dell’Ucraina», specificando che sulle questioni territoriali «un punto d’incontro non è ancora stato raggiunto». Il nodo è sempre quello: la Russia insiste a considerare una parte del territorio ucraino come proprio. E naturalmente Kiev non è d’accordo.

LA POSIZIONE AMERICANA

In questo muro contro muro, la posizione di Donald Trump è stata a dir poco ondivaga: tralasciando le iniziali scaramucce con Zelensky alla Casa Bianca, si è passati dalle “minacce” alla Russia pronunciate durante l’intervento di settembre all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, all’attuale rassegnazione di fronte al fatto che – per quanto valorosa la resistenza Ucraina – la Russia non possa non vincere, se non altro per semplice superiorità numerica.
Ma la realtà forse è più complessa: la guerra in Ucraina si combatte in gran parte grazie a soldi e armi che arrivano dagli Stati Uniti, considerata l’attuale relativa irrilevanza militare dell’Europa. E per gli Stati Uniti questa guerra è diventata troppo costosa, sia in termini di denaro che di risorse (industriali e non).
L’amministrazione Trump sta lavorando a tappe forzate per rimettere in sesto le forze armate americane, messe in crisi dai quattro anni di delirio ideologico dei precedenti occupanti della Casa Bianca, da decenni di logiche imperialistiche e da difficoltà tecnico-industriali (quali, ad esempio, i ritardi nella consegna di due nuove portaerei e nel nuovo progetto del caccia stealth di sesta generazione per la marina denominato F/A XX).
A questo si aggiungono altri diversi fattori, primo fra tutti il regime cinese (che combatte la guerra in Ucraina “per procura” attraverso il Cremlino) che, per quanto in crisi, non ha mai rallentato nella propria corsa agli armamenti e che continua a fomentare (e tenere in piedi) la jihad islamica, spesso grazie alla complicità di Stati-canaglia come l’Iran. E poi ci sono la crisi nel Mar Cinese Meridionale e la spada di Damocle dell’invasione di Taiwan e la crisi col Venezuela.
Senza contare che a tutto questo si somma l’opera di “ricostruzione interna” degli Stati Uniti, flagellati (analogamente all’Europa) da problemi come la deindustralizzazione, l’immigrazione clandestina (legalizzata di fatto dalle precedenti amministrazioni democratiche), la crisi del fentanyl e le varie organizzazioni terroristiche eversive di estrema sinistra.
I fronti, insomma, sono troppi. Anche per la superpotenza americana. Il cui primo, vero e dichiarato nemico è la dittatura comunista cinese. Probabilmente, viene anche da tutto questo la “fretta” di Trump di chiudere le due guerre che ha trovato al suo ritorno alla Casa Bianca: Gaza e l’Ucraina. A chiudere la prima, Trump ci è (più o meno) riuscito. Rimane la seconda.
 

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