Mentre l’economia interna in Cina cola a picco il regime punta sulla guerra

di Giovanni Donato
1 Novembre 2025 12:07 Aggiornato: 1 Novembre 2025 13:46

Il regime comunista cinese mira a riorientare la propria economia in chiave strategica e difensiva. È quanto emerge dal quindicesimo piano quinquennale annunciato dal Partito comunista, che – secondo molti analisti – segna la volontà di attrezzare il Paese a un lungo scontro tecnologico e commerciale con gli Stati Uniti.
Il documento, approvato al termine del Quarto Plenum del Partito comunista cinese e valido per il periodo 2026-2030, pone al centro la costruzione di «un sistema industriale moderno», la «rafforzata autosufficienza tecnologica» e la «stabilizzazione della domanda interna». L’obiettivo dichiarato è consolidare le basi dell’economia reale e favorire «uno sviluppo di alta qualità», ma la priorità resta l’autonomia tecnologica a fini militari.

«Il Pcc sta riadattando la propria struttura industriale in vista di una futura guerra tecnologica sino-statunitense, o di un blocco prolungato», osserva il professor Sun Kuo-hsiang, docente di affari internazionali all’Università Nanhua di Taiwan. Il professore spiega che l’autosufficienza tecnologica è ormai parte integrante della sicurezza nazionale, mentre la politica economica si orienta a ridurre la dipendenza dalle catene di fornitura occidentali attraverso innovazione interna e stimolo della domanda domestica.
L’insistenza sul concetto di “sviluppo di alta qualità” non coincide però con obiettivi concreti di crescita. Dalla fine delle restrizioni del Covid-19, l’economia cinese procede a ritmo debole: secondo i dati ufficiali, nel terzo trimestre la crescita è stata del 4,8 per cento, in calo rispetto al 5,2 del trimestre precedente. E molti economisti considerano tuttavia queste cifre poco attendibili.

Nel documento il regime si impegna anche a «migliorare il tenore di vita e i consumi», ma senza indicare strumenti o fonti di finanziamento. Sul piano strategico riaffiorano invece i temi classici della propaganda comunista: il richiamo alla lotta di classe, l’invito ai quadri del partito ad affrontare «venti impetuosi e acque agitate» e la riaffermazione dell’obiettivo di modernizzare le forze armate, preparandole a un’eventuale sfida militare.
Il piano sarà completato e reso pubblico durante l’Assemblea nazionale del popolo, prevista per marzo 2026.

Diversi analisti ritengono che le priorità fissate dal Pcc delineino un’“economia di guerra”, anche in considerazione del fatto che la ricerca scientifica nel regime cinese è gestita come un affare di Stato e non più come campo libero d’innovazione, con conseguente aumento della centralizzazione, a scapito di quel po’ di libero mercato che resiste nella Repubblica Popolare Cinese.
Inoltre, la riduzione dei consumi, dovuta al declino della classe media dopo la pandemia, indebolisce la domanda, ma il regime continua a puntare sulla produzione industriale e militare, trascurando la fragilità del mercato interno. Il settore navale cinese, ad esempio, ha una capacità centuplicata rispetto a quello statunitense, e l’apparato militare-industriale dispone di risorse più che doppie di quelle americane, distorcendo le normali dinamiche dello sviluppo economico.

Il settore industriale rappresenta circa il 27 per cento del prodotto interno lordo e oltre il 90 per cento delle esportazioni della Repubblica Popolare Cinese. Ma la dipendenza dal mercato internazionale la rende vulnerabile.  E la diplomazia aggressiva del Pcc e la crescente contrapposizione con l’Occidente rischiano di sfociare nel cosiddetto “disaccoppiamento” economico con gli Stati Uniti e il resto dell’Occidente stesso. E la cessazione totale di rapporti commerciali e economici con l’Occidente farebbe molto più male al regime cinese che all’Europa e all’America, che hanno possibilità notevolmente maggiori di diversificazione e risentirebbero meno di una totale interruzione del commercio. D’altra parte, l’intero sistema economico cinese è fondato sull’esportazione: senza commercio estero, il regime cinese sarebbe semplicemente finito. E in pochi mesi, probabilmente.

Intanto, le tensioni commerciali Washington-Pechino seguono l’ormai consueto andamento altalenante: dopo che il Partito comunista ha esteso i controlli sulle esportazioni alle terre rare, il 10 ottobre l’amministrazione Trump ha annunciato un dazio aggiuntivo del 100 per cento sulle importazioni cinesi. Pochi giorni dopo, Trump ha avvertito che, in assenza di un accordo, i dazi complessivi potevano salire al 155 per cento, dal primo novembre. Dopo l’incontro tra Xi e Trump, sembra si sia raggiunta una tregua, sulla cui durata non c’è però da scommettere: normalmente, il regime cinese non rispetta gli accordi.

 


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