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I problemi razziali hanno un impatto notoriamente deleterio sulla politica nazionale ma non significa che si possa ignorarli completamenteA proposito del nazionalismo (americano e non)
Gli anni Ottanta del XIX secolo furono un periodo di enormi cambiamenti nella politica mondiale. L'esperimento americano come nazione autonoma con una forma repubblicana stupì l'Europa, anche gli americani ne erano consapevoli. Fu durante questo periodo che la “religione” civica americana prese forma nei libri, nelle fiere, nella musica, nelle festività, nei musei e nelle storie popolari sulla fondazione

Foto di Khanh Quan via pexels
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Tempo di lettura: 12 Min.
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Gli anni Ottanta del XIX secolo furono un periodo di enormi cambiamenti nella politica mondiale. L’esperimento americano come nazione autonoma con una forma repubblicana stupì l’Europa, anche gli americani ne erano consapevoli. Fu durante questo periodo che la “religione” civica americana prese forma nei libri, nelle fiere, nella musica, nelle festività, nei musei e nelle storie popolari sulla fondazione. La fiducia nel futuro di questo Paese non era mai stata così alta.
Il resto del mondo era in fermento, con le aristocrazie di un tempo che scomparivano dalla scena, sostituite da una nuova meritocrazia. Il Sacro Romano Impero era andato in frantumi, mentre gli Asburgo erano sotto pressione. Lo zar in Russia era al culmine del potere, ma le sue basi erano instabili. Gli imperi portoghese e spagnolo erano scomparsi, mentre anche la monarchia britannica subiva la pressione delle forze liberali e repubblicane.
La nazione come unità autonoma stava sostituendo la monarchia multinazionale. Tutti davano questo per scontato e c’era un grande ottimismo per il futuro. Tutte le fazioni lottavano per ottenere il controllo di quello che queste nuove nazioni avrebbero fatto e quindi i fanatismi ideologici a lungo repressi si scatenarono in ogni direzione, terrorizzando le élite secolari.
In questo contesto, era necessario che una voce europea si esprimesse sulla definizione e sul significato di nazione. Quella voce era dello storico francese Ernest Renan alla conferenza del 1880 alla Sorbona dal titolo Che cos’è una nazione?
Quel discorso conserva ancora oggi tutta la sua forza. Renan formulò cinque possibili fondamenti che costituiscono una nazione: unione nella religione, unione nella lingua, unione di razza/etnia, patrimonio/discendenza comune e posizione geografica. Non espresse alcun giudizio su quale fosse l’unica scelta possibile, ma avvertì che ognuna di esse poteva costituire l’emancipazione del popolo o il dispotismo, a seconda dei casi.
Avevo letto questo saggio alcuni anni fa, quando l’ascesa del nazionalismo nella nostra epoca cominciò a sostituire il breve esperimento di globalismo, durato dalla metà degli anni ’80 fino al 2010 circa, quindi forse 30 anni: tutti volevano essere “cittadini del mondo”. C’erano poche tensioni riguardo alla fluidità del commercio internazionale. Anche le guerre erano imprese multinazionali codificate dalle Nazioni Unite e, per un breve periodo, i confini sembravano non avere più molta importanza.
La rivolta contro questo modello è iniziata in seguito alla crisi dei rifugiati in Europa, all’ascesa della Cina come potenza produttiva egemonica, alla russofobia emergente dalla sinistra americana e al profondo risentimento contro la governance mondiale che ha posto il controllo del regime ben al di fuori della portata di qualsiasi plebiscito.
Per quanto mi riguarda, la mia formazione intellettuale è avvenuta negli anni caldi del globalismo, attingendo a piene mani dalla letteratura sulla “fine della Storia”. Il nazionalismo mi sembrava intrinsecamente problematico, statalista, bellicoso, forse razzista e protezionista: tutte cose negative.
Mi ci è voluto del tempo per abituarmi alla nuova filosofia, ma un argomento mi ha conquistato e aveva a che fare con il rapporto tra il regime e il cittadino: il globalismo recide completamente questo rapporto. Non esistono elezioni globali, ma solo elezioni nazionali. Se crediamo che debba esistere un meccanismo di riscontro tra il popolo e il governo, un metodo attraverso il quale il popolo possa influire sulle leggi e sulle regole che lo governano, il nazionalismo è l’unica opzione possibile.
Il periodo del COVID ha sancito questa convinzione. La massima autorità di controllo era l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che nessuno ha votato e che nessun cittadino può controllare, ed è letteralmente irresponsabile nei confronti di chiunque. Questo è un aspetto in comune con la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, la Corte Penale Internazionale e tante altre istituzioni costituite dopo la Seconda Guerra Mondiale. Non è possibile avere queste enormi forze che governano il mondo e allo stesso tempo credere nella democrazia.
Questo è un punto convincente, ma che dire dell’idea stessa di nazione? Chi è disposto a rispondere alle questioni poste da Renan? Qual è e quale dovrebbe essere il fondamento della nazione?
Ho posto la domanda ad Auron McIntyre, autore di The Total State. Ribadendo la tesi di Renan gli ho chiesto senza mezzi termini: nella sua visione del nazionalismo, qual è il fattore più unificante: la religione, la lingua, la razza, il patrimonio culturale o la geografia? Non so perché, ma la sua risposta mi ha sorpreso e soddisfatto allo stesso tempo. Ha detto che tutti questi fattori sono importanti in una combinazione che dipende dalla situazione del luogo e dalla Storia: ecco la risposta! Era ovvia, ma in qualche modo mi sfuggiva.
Perché è così interessante? Perché per un secolo o più, uno o l’altro di questi requisiti è stato esaltato rispetto agli altri portando ad abusi. Ad esempio, se si pensa che una nazione sia solo un confine geografico, e che chiunque può entrarvi senza comprometterne l’ordine e la stabilità. Questo è ovviamente falso: il voto è potere, nessuno vuole essere straniero in una terra straniera in cui non si condividono affatto i valori con i propri concittadini. Questa è una ricetta per la guerra civile.
I confini non sono solo linee arbitrarie su una carta geografica, come una parentesi aperta e chiusa senza contenuto. Segnano i confini della sovranità civica, limitando gli Stati ma anche contenendo persone reali con esperienze, ricordi, sistemi di credenze, aspirazioni e regole uniche, diverse da quelle di altri luoghi.
Il criterio linguistico andrebbe bene, ma ha meno senso se non accompagnato da altri indicatori di nazionalità. Significherebbe che Inghilterra, Australia e Stati Uniti costituiscono un’unica nazione (poiché parlano la stessa lingua), il che è intuitivamente falso. Allo stesso tempo, la lingua è un enorme punto di unione in qualsiasi Paese, ma nulla crea più conflitti di un unico governo che amministri un territorio poliglotta, nemmeno le scuole riuscirebbero a funzionare.
I problemi razziali hanno un impatto notoriamente deleterio sulla politica nazionale, ma non significa che un Paese possa ignorarli completamente. Il Giappone è per i giapponesi, l’Irlanda per gli irlandesi e così via, eliminare questo principio e non rispettarlo mescolando le popolazioni è molto pericoloso. Questo non vuol dire che gli Stati multirazziali siano sempre insostenibili: gli Stati Uniti ne sono un ottimo esempio e il Brasile lo è ancora di più. Ma sarebbe sciocco ignorare completamente la questione.
Lo stesso vale per la religione: nessuna nazione che abbia funzionato in modo ordinato nella Storia è stata priva della supremazia di una propria tradizione religiosa, pur permettendo ad altre tradizioni di coesistere. Questo è chiaramente innegabile: gli Stati Uniti hanno una lunga storia di cristianesimo protestante, che non ha impedito a molte altre religioni e sette di svilupparsi. Affermarlo non significa negare la libertà e i diritti religiosi, ma semplicemente osservare che, di norma, l’ethos nazionale eleva la propria tradizione al di sopra delle altre. È inutile pensare il contrario.
Lo stesso vale per il lignaggio e il patrimonio culturale. Le popolazioni residenti costituiscono attraverso le generazioni la base della memoria culturale e della tradizione. È da lì che derivano tradizioni nazionali come – per esempio in America – il Giorno dell’Indipendenza e il Giorno del Ringraziamento, e le organizzazioni che si occupano del patrimonio culturale hanno propriamente il compito di mantenere vive le memorie del passato. Tutto questo è molto sano, pur non essendo necessariamente esclusivo.
Detto questo, dobbiamo apprezzare il significato stesso di nazionalità come baluardo della libertà e della buona vita. Non è sufficiente che un movimento politico o intellettuale che spera di influenzare la vita di una nazione in direzione conservatrice si limiti a parlare astrattamente di libera impresa e governo limitato. Deve parlare anche della costruzione della realtà culturale e politica della nazionalità stessa.
Sto scrivendo dalla Conferenza sul Conservatorismo Nazionale. Non ricordo di aver mai partecipato a un evento con discorsi di così alto livello, seri e ponderati e con così tante persone civili e ben istruite. I loro contributi sono nuovi, affascinanti e stimolanti, come il conservatorismo vecchio stile non è mai stato. Non c’è un consenso universale su tutto e questo è fantastico, ma c’è accordo sul fatto che la nazione può esistere, ed esiste, e deve significare qualcosa perché abbia un sano ordine civico.
Il 250esimo anniversario della fondazione dell’America ne ha un disperato bisogno, ed è per questo che ho scritto Spirits of America: è il mio tentativo personale di discernere e concretizzare i valori fondamentali che costituiscono l’esperienza americana. Dovremmo tutti scrivere libri come questo: nonostante le nostre diversità, abbiamo bisogno di una comprensione condivisa di quello che ognuno di noi sta facendo in un determinato posto e del perché lo sta facendo. Il nazionalismo non è altro che l’aspirazione a sviluppare e preservare tutto questo.
In questo senso, non c’è nulla di minaccioso nel nazionalismo, anzi, c’è molto dell’idea di una vera emancipazione. Una cultura e un ordine sociale forti, radicati in valori legati alla Storia e all’esperienza, sono una protezione indispensabile da governi arbitrari e dal collasso sociale.
Finché saremo consapevoli delle virtù, delle norme, delle tradizioni e degli ideali che le costituiscono, le nazioni potranno funzionare. Il progetto di ridefinire e comprendere il significato sia del nazionalismo che della cittadinanza nell’esperienza americana è una delle sfide filosofiche e politiche più avvincenti del nostro tempo.
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