Riuscirà l’amministrazione Trump a porre fine alla guerra civile in Sudan?
Marco Rubio ha dato alle parti in conflitto un ultimatum per raggiungere un cessate il fuoco entro circa 10 giorni. La domanda chiave ora è se la mossa degli Stati Uniti segnerà una svolta o si aggiungerà a una lunga serie di iniziative fallite.

Screenshot da video
In Sudan, la guerra civile iniziata nel 2023 non accenna a fermarsi. Il ministro degli Esteri americano Marco Rubio ha lanciato un ultimatum alle due parti in conflitto: dieci giorni per raggiungere un cessate il fuoco. Un lasso di tempo molto breve per tentare di stabilire una tregua. Gran parte dell’impegno americano, sottolinea, è infatti attualmente concentrato sul raggiungimento di una tregua umanitaria il più rapidamente possibile.
Questa sembra essere una manovra diplomatica insolita da parte di Washington, assume nei fatti la forma di una dichiarazione politica deliberata per passare dalla fase di gestione della crisi a quella di definizione del risultato.
Questa sembra essere una manovra diplomatica insolita da parte di Washington, assume nei fatti la forma di una dichiarazione politica deliberata per passare dalla fase di gestione della crisi a quella di definizione del risultato.
Per la prima volta dallo scoppio del conflitto tra l’esercito sudanese, al comando del generale Abdel Fattah al-Burhan, e le forze armate del generale Mohammed Hamdan Deklo, noto come Hamidi, gli Stati Uniti hanno deciso di imporre un limite di tempo a entrambe le parti. Si tratta di un passo che indica, da un lato, una relativa fiducia nella capacità di influenza americana e, dall’altro, un crescente senso di urgenza alla luce del deterioramento umanitario e del timore di una diffusione dell’instabilità nella regione.
Secondo alcuni analisti, l’iniziativa americana non avviene nel vuoto: dietro di essa vi è un forte intervento saudita, nella persona del principe ereditario, Mohammed bin Salman, che ha chiesto a Donald Trump di intervenire personalmente per porre fine alla guerra. E anche la recente visita di Abdel Fattah al-Burhan a Riad non è stata solo cerimoniale. Secondo gli analisti sudanesi, gli è stata presentata la richiesta urgente di aderire alla linea dell’alleanza composta da Stati Uniti, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto. Uno degli obiettivi dei quattro Paesi sarebbe, appunto, il cessate il fuoco e l’avanzamento verso un percorso politico.
Nonostante la retorica umanitaria, è chiaro che la tregua sia uno strumento, una prima fase che consentirà l’ingresso degli aiuti, la verifica dell’impegno delle parti e la preparazione del terreno per una manovra per portare alla fine del conflitto. Tuttavia, la sfida principale rimane la profonda sfiducia tra le parti. Marco Rubio stesso ha ammesso che entrambi i campi hanno violato impegni precedenti, esprimendo preoccupazione per i rapporti sugli attacchi ai convogli di aiuti: «Arriverà il giorno in cui la verità sarà rivelata e tutti i soggetti coinvolti saranno visti sotto una luce negativa».
Gli analisti sudanesi stimano che la stessa imposizione di una deadline così breve è indice di intese pregresse e silenziose di Washington con elementi chiave del conflitto. Gli Stati Uniti non tenterebbero mai tale via senza una valutazione accurata e la certezza, o quasi, di una svolta. Le forze armate di Hamidi hanno espresso la loro disponibilità ad accettare qualsiasi iniziativa per fermare la guerra, lanciando un messaggio positivo a Washington; l’esperienza insegna però che il divario tra le dichiarazioni pubbliche e i fatti non è cosa da poco.
Gli Emirati Arabi Uniti hanno accolto subito con favore l’iniziativa americana, sottolineando come un cessate il fuoco immediato e la garanzia dell’accesso umanitario siano condizioni fondamentali per qualsiasi progresso; una posizione simile a quella saudita, che rafforza le probabilità di successo e posiziona Stati Uniti, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto al centro della trattativa per il Sudan.
Anche la visita del primo ministro del Sudan, Kamal Idris, a New York riflette il tentativo di mobilitare un più largo riconoscimento internazionale, con il crescente timore per l’aggravarsi delle atrocità nel Kordofan meridionale e nella regione del Darfur.
Anche la visita del primo ministro del Sudan, Kamal Idris, a New York riflette il tentativo di mobilitare un più largo riconoscimento internazionale, con il crescente timore per l’aggravarsi delle atrocità nel Kordofan meridionale e nella regione del Darfur.
La questione centrale che rimane aperta è se l’ultimatum americano segnerà un punto di svolta o si aggiungerà a una lunga serie di iniziative fallite. Il successo, secondo le valutazioni politiche, rafforzerebbe la posizione degli Usa come mediatore efficace nell’era Trump e darebbe slancio a un percorso politico civile. Una scommessa politica calcolata, quindi, e non un ordinario tentativo di mediazione. Un fallimento, di contro, potrebbe approfondire la sfiducia e rafforzare la sensazione che il Sudan rimarrà un teatro di logoramento senza una chiara via d’uscita.
Articoli attuali dell'autore
23 dicembre 2025
Hamas è in crisi finanziaria
23 dicembre 2025
Israele vara la Commissione d’inchiesta sul 7 ottobre
23 dicembre 2025
La Turchia conferma posizioni filo-islamiche su Gaza e Siria
23 dicembre 2025
Grecia, Cipro e Israele valutano un reparto militare comune











