Renzi: me ne vado, anzi no

Il premier Matteo Renzi ha accettato la proposta del Capo dello Stato: dimissioni rinviate, quindi, in attesa per lo meno dell’approvazione della Legge di Stabilità, che è stata blindata e sulla quale si voterà la fiducia mercoledì 7 dicembre. Intanto la Corte Costituzionale ha fissato al 24 gennaio la discussione sulla legge elettorale Italicum.

Forza Italia e Lega Nord si oppongono all’approvazione lampo della Legge di Stabilità da parte di un governo di fatto dimissionario, in particolare lamentando la presenza al suo interno di «marchette pre-elettorali», per usare le parole di Matteo Salvini, condivise anche dal capogruppo azzurro Renato Brunetta. Il Movimento 5 Stelle invece non è contrario all’approvazione rapida della legge, così che Renzi possa dimettersi prima possibile.

Tutte le opposizioni invocano il voto al più presto. Nel frattempo, però, si attende il giudizio della Corte Costituzionale sulla legge elettorale del governo Renzi, che tra l’altro è valida solo per la Camera, mentre al Senato è ancora in vigore il ‘Consultellum’. Grande incertezza, quindi, sulle regole del voto. E c’è la possibilità che, in caso di elezioni affrettate, anche il prossimo Parlamento risulti ‘illegittimo’ nel caso la Corte bocci l’attuale legge.

Epoch Times ha quindi intervistato il sociologo e politologo Alessandro Lattarulo per fare il punto della situazione.

Professor Lattarulo, attualmente abbiamo l’Italicum alla Camera e il Consultellum al Senato. Secondo lei si dovrà attendere la riforma della legge elettorale prima del voto? E cosa succederà se si andrà a votare in questa situazione?

Il problema è che sull’Italicum pende il giudizio della Corte Costituzionale, che inizialmente era previsto all’incirca per febbraio, e che tutti adesso si sono affrettati a chiedere se fosse per così dire anticipabile di un po’ di tempo. Il punto è che le idee in campo sono molto, molto differenti e mi chiedo che tipo di sintesi si possa mai trovare.

Legge elettorale e revisione costituzionale erano stati punti programmatici sui quali il Parlamento a maggioranza aveva chiesto, quasi in ginocchio, la rielezione di Giorgio Napolitano come presidente della Repubblica, e che Giorgio Napolitano aveva di fatto imposto come condizioni per prestare altri due anni, all’incirca, di servizio. Quindi così come è successo poi il patatrac quando si è trattato di parlare di revisione costituzionale, il patatrac è successo anche quando è stato votato l’Italicum, che da alcune forze politiche è stato disegnato e dipinto quasi come la cosa più antidemocratica del pianeta, senza però che queste medesime forze politiche abbiano trovato mai in Parlamento una sponda in almeno un’altra forza politica di un qualche peso per poter proporre una soluzione differente.

Cioè, detto in sintesi, quello che a me preoccupa dell’Italia non è chi vince o chi perde: è giusto e necessario che venga rispettato l’esito delle urne, quale che esso sia, con ogni tipo di consultazione. A me preoccupa invece una deriva che riguarda soprattutto alcune forze politiche, secondo cui una cosa è democratica se passa quella che è la mia idea, mentre non è democratica se viene votata l’idea di altri. Quando poi, queste stesse forze politiche, e – devo essere franco – soprattutto il Movimento 5 Stelle, sono le meno disposte a dialogare con gli altri per trovare soluzioni comuni. Questa è una cattivissima deriva perché fa vedere la politica come un qualche cosa di sicuramente oscuro, quasi un misfatto continuo agli occhi dei cittadini, perché la si presenta come un qualche cosa in cui sono sempre a decidere altri, ma non “noi che siamo la parte buona del Paese e che avremmo voluto altro”. Ma se non si è il 50%+1 della popolazione o il 50%+1 dei parlamentari, il compromesso è la base fondamentale di una democrazia funzionante, sotto questo profilo. E quindi questo mi spaventa. Mi spaventa molto. Per esempio si prenda la vicenda delle matite copiative, che ha un po’ inficiato il clima di serenità del referendum. Quello che mi spaventa è che appunto si sia creato questo clima di sospetto continuo, di totale crollo della fiducia, come si dice anche in sociologia, per il quale se io, solo perché l’ha detto qualcuno, inizio a sospettare che in un seggio ci possano essere un presidente, un segretario e tre scrutatori quasi sicuramente corrotti che vorranno cancellare il mio voto, e questi saranno sicuramente spalleggiati da tutte le forze dell’ordine presenti nel seggio, dalla polizia municipale presente nel seggio, da tutti gli impiegati del comune che sono lì a fare gli ufficiali di collegamento, allora questo qui è un Paese che perderà – chiunque governi – quel cemento minimo, come si dice appunto in sociologia, che è la fiducia. Se manca la fiducia tra le persone, per cui io scendo dal panettiere e sono sicuro di trovare un pane non fatto con ingredienti di quart’ordine, ma con ingredienti buoni, di pagarlo, e il panettiere a sua volta è convinto che io gli stia dando una moneta che non sia una moneta taroccata ma che sia una moneta vera, bene, se crollano questi meccanismi minimi di fiducia, di che cosa stiamo parlando? Le istituzioni non potranno assolutamente fare niente, e il Paese sarà costretto, suo malgrado, a un inevitabile declino. Che governi il centrosinistra, che governi il centrodestra, o che governi il Movimento 5 Stelle. Questa è la cosa in assoluto più grave. Questo è un fatto secondo me molto trascurato e che invece dovrebbe essere veramente centrale nella riflessione comune.

Che valutazione trae dai risultati del referendum?

È un risultato che francamente io mi aspettavo esattamente in queste dimensioni. Me lo aspettavo in questi termini perché secondo me la discriminante attorno a cui il referendum girava era paura/non-paura. Nel senso che in un Paese alle prese con una crisi lacerante che nonostante tutto si protrae nel tempo, e un Paese soprattutto spaccato tra Nord, Centro-nord, che ha ripreso un minimo di cammino verso una fuoriuscita dalla crisi, e Mezzogiorno, in cui la situazione resta ancora drammatica, era evidente che qualsiasi proposta di modificare l’esistente sarebbe stata immediatamente decifrata per il pubblico degli elettori come una possibilità di avere un attentato a quel poco che ancora rimane, che viene visto nella Costituzione. Ecco perché paura/non-paura.
Quindi coloro i quali hanno una situazione relativamente tranquilla o agiata, hanno intravisto in questa revisione della Costituzione un’opportunità per modernizzare il Paese. Chi è invece alle prese con situazioni di grave difficoltà, ha avuto paura che questo fosse un espediente della cosiddetta casta per sottrarre qualche cosa. E lo dimostrano secondo me in maniera lampante due dati: il primo è quello relativo alla totale differenza di voto tra i pensionati e i giovani. I giovani hanno votato in larghissima misura, strabordante oserei dire, per il No. Oggi i giovani sono, per definizione, purtroppo, i precari, i senza una grande prospettiva di lavoro, soprattutto a tempo indeterminato, mentre i pensionati sono – sia pure tra le mille difficoltà che hanno – coloro i quali comunque hanno un minimo di certezze. E l’altro dato è costituito dalle sole tre regioni che hanno dato una seppur risicata vittoria al Sì, ovvero le due del centro, Emilia e Toscana, e il Trentino Alto Adige. E se anche andiamo a vedere nelle città, scopriamo che una delle poche città dove il Sì ha vinto, pur in una regione dove complessivamente vince il no, è Milano, che è una città che – ci dicono gli indicatori dell’Istat – è ripartita, dove non c’è quasi più completamente disoccupazione. È una città ormai proiettata verso il Nord Europa, a differenza del resto dell’Italia.

Ritiene che, dopo le dimissioni, Renzi si ritirerà del tutto dalla politica?

Io credo che oggi lui sia sottoposto a due tipi di richieste: la richiesta di una parte dei suoi fedelissimi, che lo spinge a creare un movimento quasi civico di centrosinistra comunque alternativo al Partito Democratico, e la spinta invece di altrettanti suoi fedelissimi che gli ricordano che lui è, ad oggi, fino al congresso del 2018, ancora il segretario del Partito Democratico, e che è giusto comunque che continui a svolgere, anzi magari che inizi a svolgere, in maniera più seria e forte di quanto abbia fatto fino ad adesso, questo ruolo interno al partito, per traghettarlo gradualmente – dedicandosi quindi anche territorialmente alle sezioni eccetera eccetera – verso posizioni più riformiste o comunque su posizioni riformiste diverse da quelle della scuola bersaniana, tanto per intenderci.

Chi potrebbe candidare il Pd alle prossime elezioni?

L’alternativa è esattamente legata alla scelta che compirà Renzi rimanendo nel Pd oppure fondando un proprio movimento. Siccome probabilmente la legge elettorale potrebbe andare verso la ricostituzione delle cosiddette coalizioni, allora ci potrebbe essere un Renzi con il suo nuovo movimento a fare da tramite verso quella che oggi è Area Popolare per evitare che ritorni e vada a risaldarsi con il centrodestra; oppure, in assenza di questo, con un cambio di segreteria (quindi per esempio con una segreteria di Barca, o di Zingaretti, o una segreteria di Rossi, il governatore della Toscana) si potrebbe avere un Pd che invece riapra completamente i canali del dialogo verso quella che oggi è la galassia di Sinistra Italiana.

Intervista adattata e ridotta per motivi giornalistici.

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