L’esodo delle aziende statunitensi dalla Cina

Le destinazioni più gettonate sono Vietnam, Burma, Filippine e Bangladesh, almeno secondo i dati forniti da Qima

Di Emel Akan

La pandemia del virus del Pcc ha messo in luce i rischi legati alle catene di approvvigionamento globali: i dati mostrano che le aziende statunitensi hanno già iniziato a trasferire le proprie attività produttive fuori dalla Cina.

Un esodo produttivo era già in corso a causa delle incertezze create dalla guerra commerciale tra Usa e Cina nel 2019. E ora il virus del Pcc (Partito Comunista Cinese), meglio noto come nuovo coronavirus, ha accelerato questa tendenza e ha incoraggiato un maggior numero di aziende a ridurre la loro eccessiva dipendenza dalla Cina.

Secondo lo studio di Qima, una società di controllo qualità e ispezione delle filiere globali con sede a Hong Kong, gran parte della produzione viene ora trasferita nel sud-est asiatico e nell’Asia meridionale.

La relazione di Qima si basa sui dati raccolti durante decine di migliaia di analisi delle catene di fornitura globali per conto di marchi internazionali e rivenditori al dettaglio. Le aziende abitualmente usano questo genere di analisi per decidere se cambiare o meno fornitori.

Nel frattempo, la richiesta di analisi sulla filiera produttiva dell’Asia meridionale è aumentata del 52 percento, con il Bangladesh che sta diventando una destinazione molto gettonata, soprattutto per i marchi del settore tessile e dell’abbigliamento.

A questo si aggiunge che un sondaggio condotto tra oltre 200 aziende da Qima a fine febbraio ha mostrato che l’87 percento degli intervistati riteneva che la pandemia potrebbe innescare cambiamenti significativi nella gestione della filiera produttiva.

Per mitigare i rischi di carenza di forniture derivanti dalla chiusura delle fabbriche in Cina, più della metà degli intervistati aveva anche dichiarato di aver già cominciato a rivolgersi a fornitori in regioni non colpite dal virus.

La tendenza, tuttavia, si è interrotta negli ultimi mesi, poiché il Covid-19, la malattia causata dal virus del Pcc, si è diffuso in quasi tutto il mondo. Il futuro dell’industria manifatturiera asiatica al di fuori della Cina dipenderà quindi dalla capacità di questi Paesi di sopravvivere alla crisi sanitaria.

Mathieu Labasse, chief marketing officer di Qima, ha dichiarato a Epoch Times in una e-mail che «dopo un inizio anno molto forte quando la Cina era chiusa, anche loro sono stati colpiti dai lockdown causati dal Covid-19».

Labasse spiega che i lockdown hanno influenzato sia il lato della produzione che quello della domanda, con la chiusura dei mercati di esportazione globali: «Tra aprile e maggio, abbiamo assistito a una diminuzione del volume di oltre il 40 percento nel sud-est asiatico, e di oltre l’80 percento nell’Asia meridionale: India, Bangladesh, Pakistan».

Tuttavia, la società di controllo e analisi ritiene che la diversificazione delle fonti di approvvigionamento e la tendenza al ‘nearshoring’ raggiungeranno nuove vette quando il commercio globale tornerà alla normalità.

Lo studio afferma: «I marchi e i rivenditori che superano la tempesta finiranno probabilmente per avere un portafoglio di fornitori fortemente rinnovato, costituito da fabbriche che riescono a sopravvivere ai lockdown».

Nel frattempo, il rallentamento della domanda globale a causa dei lockdown, in particolare in Europa e negli Stati Uniti, ha colpito pesantemente anche i fornitori cinesi.

Spiega Labasse: «Dopo una breve ripresa a metà marzo, quando le fabbriche cinesi stavano riaprendo, i volumi sono crollati di nuovo in aprile e maggio, quando i mercati di esportazione sono rimasti chiusi. Abbiamo registrato un calo del 20 percento nel numero di analisi year-on-year in Cina negli ultimi due mesi».

D’altra parte, la situazione è completamente diversa per quanto riguarda i dispositivi di protezione personale, di cui la Cina è il principale fornitore globale.

Infatti, Labasse ha sottolineato di aver «visto un imponente aumento nel volume delle ispezioni delle maschere in arrivo».

Negli ultimi due decenni, la Cina è diventata un fornitore globale della massima importanza. Secondo le Nazioni Unite, la Cina detiene quasi il 20 per cento della produzione mondiale di semilavorati, rispetto al 4 per cento del 2002.

La maggior parte delle grandi aziende statunitensi hanno investito molto in strutture e risorse umane in Cina per accedere al mercato cinese, oltre ad aver rinunciato ai propri segreti industriali.

Tuttavia, la pandemia, unita al recente inasprimento del sentimento popolare e delle relazioni diplomatiche nei confronti del regime comunista cinese, ha costretto molti consigli di amministrazione a riconsiderare il proprio rapporto con la Cina.

Nel tentativo di diversificare la propria filiera produttiva, l’anno scorso Apple aveva chiesto ai suoi principali fornitori di valutare la possibilità di trasferire parte della produzione dalla Cina al Sud-Est asiatico. L’azienda ha anche avviato il processo di trasferimento dalla Cina al Vietnam della produzione degli AirPods, i suoi popolari auricolari wireless.

In effetti già nel 2019 almeno 50 multinazionali americane, giapponesi e taiwanesi avevano annunciato piani per il trasferimento della produzione fuori dalla Cina, al fine di evitare i dazi statunitensi.

 

Per saperne di più guarda il documentario realizzato da Ntd Television che mostra come negli ultimi decenni siano stati proprio i finanziamenti guidati da Wall Street, a rendere la Cina una potenza economica mondiale:

Articolo in inglese: US Manufacturing Exodus From China Gets Underway

 
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