Nel suo discorso all’Onu, Donald Trump ha pubblicamente umiliato la Russia dicendo che l’economia russa è in condizioni disastrose e che, in pratica, le forze armate russe non valgono niente (almeno per una nazione che di definisce una” potenza” mondiale). La Russia è una «tigre di carta» ha detto Trump, usando l’espressione che Mao Zedong usava per definire gli Stati Uniti evidentemente ribaltando le parti, visto che l’America era la prima potenza mondiale mentre nella dittatura comunista cinese il popolo, durante la Grande Carestia, moriva di fame. Non c’è motivo, insomma, per cui la Russia – che ha clamorosamente fallito l’invasione Ucraina – faccia paura all’Occidente.
Ma l’amministrazione Trump sta facendo di tutto per evitare di dover sconfiggere sul campo di battaglia le due Tigri di Carta alleate (Cina comunista e Russia post-comunista) in quella che sarebbe la Terza guerra mondiale. Innanzitutto perché Donald Trump è l’esatto contrario dei neocon, che credevano che la guerra fosse la soluzione ideale per tutto o quasi. In secondo luogo, perché esiste il concreto rischio che in guerra la situazione sfugga di mano: i due regimi, trovandosi con le spalle al muro, potrebbero mettere mano alle armi nucleari. L’America sarebbe costretta a fare altrettanto. E sarebbe la fine.
Per questo, il presidente degli Stati Uniti tende a intensificare sempre di più la pressione sull’economia russa, con l’obiettivo di arrivare a un embargo totale del petrolio russo che, oltre all’Europa, anche la Cina sta ancora comprando a fiumi. Ma nonostante questi ottimi clienti, gli ultimi dati rappresentano un’economia russa realmente sul punto di crollare: il petrolio da solo non basta più.
Le esportazioni energetiche rappresentano la pietra angolare delle entrate fiscali russe, con oltre mille miliardi di dollari dall’inizio della guerra in Ucraina, secondo Statista. Quest’anno, Mosca prevede che le esportazioni energetiche costituiscano circa un terzo delle entrate, per un totale di oltre 200 miliardi di dollari. Se la Russia può combattere questa guerra è solo grazie al petrolio e gas che vende all’estero.
Ma le sanzioni occidentali e il calo dei prezzi (i prezzi del petrolio Brent sono scesi di circa il 7 per cento quest’anno, attestandosi a 69 dollari al barile) hanno fatto seri danni al bilancio russo: il deficit ha raggiunto i 60 miliardi di dollari nei primi sette mesi del 2025. Il governo russo sta valutando tagli alla spesa pubblica e aumenti di tasse, come l’innalzamento dell’Iva nazionale del 2 per cento, portandola al 22 per cento a partire dal prossimo anno, per raggranellare 15 miliardi e mezzo di dollari, togliendoli dalle tasche dei russi per spenderli in Ucraina. La guerra costa.
Rosstat, il servizio federale di statistica, ha riportato il mese scorso che il tasso di crescita del Pil nel secondo trimestre è stato dell’1,1 per cento, contro il 4 per cento nello stesso periodo dell’anno precedente. Questo si spiega soprattutto col fatto che il fuoco di paglia dell’economia di guerra si è spento e con l’innalzamento dei tassi di interesse deciso dal governo per cercare di contenere l’inflazione. Il ministero dello Sviluppo economico russo ha rivisto al ribasso la previsione di crescita del Pil per il 2025 all’1,5 per cento, dal precedente 2,5 per cento. La proiezione per il 2026 è stata analogamente ridotta all’1,3 per cento dalla precedente previsione del 2,4 per cento. Dati fra l’altro ottimistici, quelli ufficiali russi, ma la cui tendenza è abbastanza in linea con quelli del Fondo monetario internazionale.
Inoltre, l’indice Pmi manifatturiero russo di S&P Global rileva che l’attività delle fabbriche russe si è contratta per il terzo mese consecutivo in agosto. Il calo è principalmente causato da una domanda debole: i russi spendono sempre meno. E, d’altra parte, la produzione industriale è negativamente influenzata dalla coscrizione militare e dalle interruzioni di produzione legate al conflitto. Il ministro dello Sviluppo economico russo Maxim Reshetnik, durante il Forum economico internazionale di San Pietroburgo di giugno, ha detto chiaramente che la Russia è sull’orlo della recessione.
Si capisce bene, a questo punto, perché l’amministrazione Trump ultimamente insista così tanto sulle sanzioni.
Secondo i dati del Center for Research on Energy and Clean Air l’Unione Europea fornisce circa la metà delle entrate russe dalle esportazioni di gas naturale liquido. L’Ue compra il 35 per cento del gas russo via gasdotto, una quota superiore a quella della Cina (30 per cento). In agosto, all’interno dell’Ue l’Ungheria è stata il maggiore importatore di combustibili fossili russi, avendo acquistato petrolio e gas per 416 milioni di euro. A seguire la Slovacchia (276 milioni di euro), la Francia (157 milioni di euro), l’Olanda (65 milioni di euro) e il Belgio (64 milioni di euro).
Nel frattempo, «è in corso una gara di resistenza tra l’esercito ucraino e l’economia russa», come ha spiegato il ministro del Tesoro Scott Bessent parlando a Meet the Press di Nbc all’inizio di questo mese. Una gara che si può sintetizzare così: l’Ucraina riuscirà a resistere finché la Russia andrà in bancarotta e non potrà più combattere? La Russia farà in tempo a sconfiggere l’esercito ucraino prima di finire i soldi?