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Europa in crisi e concorrenza cinese sempre più forte, ma "la ricetta” non cambia: più Europa

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L’economia mondiale sta attraversando trasformazioni profonde che vanno ben oltre la questione dei dazi statunitensi, e l’Europa deve imparare a trovare nuova crescita al proprio interno, poiché le sue tradizionali fonti di reddito si stanno esaurendo. A dirlo è Philip Lane, capo economista della Banca centrale europea, in un’intervista a Reuters.
Dalla pandemia in poi, l’Europa ha registrato una crescita poco sopra lo zero: la concorrenza cinese la sta progressivamente estromettendo dai principali mercati d’esportazione, l’industria ha perso competitività, i consumatori preferiscono risparmiare piuttosto che spendere e, a tutto ciò, si aggiunge oggi la pressione esercitata dai dazi imposti da Washington alle importazioni. Questo secondo l’incoraggiante quadro di Lane, secondo cui la Cina, dopo essere stata per anni tra i maggiori acquirenti di prodotti europei, ha sviluppato una propria capacità concorrenziale di altissimo livello, trasformandosi da mercato di destinazione in diretto concorrente dell’Europa e restringendo così la finestra d’accesso per le esportazioni del Vecchio Continente, ribaltando  quello che in economia si chiama lo “schema dei vantaggi comparati”, un principio economico secondo cui due nazioni possano trarre beneficio dallo scambio commerciale, anche se uno dei due è più efficiente nella produzione di tutti i beni (e non solo di alcuni) rispetto all’altro. Il concetto si basa sull’idea che ogni economia dovrebbe specializzarsi nella produzione dei beni per cui ha il “costo opportunità” più basso, cioè quelli che produce relativamente meglio rispetto agli altri beni. In questo modo, la divisione del lavoro aumenta l’efficienza complessiva e il commercio internazionale diventa vantaggioso per entrambe le parti. Questo principio è alla base del libero scambio e della globalizzazione economica, il cui fallimento sta diventando sempre più evidente.
Il capo economista della Bce ha poi ha ammesso che i dazi americani possono aggravare le difficoltà dell’export europeo, ma si è mostrato complessivamente fiducioso, osservando che l’espansione dell’intelligenza artificiale e l’elevata spesa pubblica negli Stati Uniti mantengono sostenuta la domanda interna, attenuando l’impatto sulle importazioni europee: «In queste condizioni, la capacità delle imprese di trasferire l’aumento dei dazi all’importatore e al consumatore americano resta piuttosto solida». Tuttavia, secondo il dirigente della Banca Centrale europea, i dazi stanno ridisegnando le rotte del commercio mondiale, in particolare in Asia, e l’Europa si trova ora esposta a una concorrenza cinese sempre più incisiva: «La Cina esporta ormai di più verso il Sud-Est asiatico, il quale a sua volta vende di più agli Stati Uniti; nel frattempo Pechino esporta di più anche in Europa e nel resto dell’economia mondiale». Insomma, l’intero sistema del commercio mondiale è in fase di totale «riconfigurazione».
In tutto questo, l’Europa può contare su un mercato interno di 350 milioni di persone che, se liberato da ulteriori barriere, offrirebbe già di per sé ampie possibilità di sviluppo. «La lezione degli Stati Uniti è quella di avere un vero mercato unico», dice il capo economista della Bce «Abbiamo bisogno di scala, se vogliamo ottenere un ritorno adeguato sugli investimenti più rilevanti in un’economia ormai essenzialmente digitale». E «raggiungere questa scala è piuttosto difficile quando si frammenta l’Unione europea in 27 Stati membri».
In sintesi, il discorso che arriva da certe istituzioni europee è sempre lo stesso: dateci più potere e tutto andrà meglio. In questo senso, l’ideale per questo tipo di funzionari europei sarebbe che gli Stati nazionali cessassero di fatto di esistere, e che tutto venisse gestito direttamente da Bruxelles e da Francoforte.
Ma purtroppo, finora si è dimostrato vero il contrario: a maggiori poteri conferiti alle istituzioni europee non sono corrisposti aumenti di vantaggi e benessere per i cittadini europei, anzi. Dopo oltre trent’anni di “Europa” – e oltre vent’anni di euro – ormai tutte economie europee stagnano (alcune, come quella italiana, da decenni). E ai vecchi problemi – quali, tra i molti, disoccupazione, e crollo del potere d’acquisto delle famiglie – se ne aggiungono man mano sempre di nuovi: direttive assurde, ordine pubblico, desertificazione industriale, inefficienze produttive, assistenzialismo, shock culturali dovuti a politiche migratorie mal gestite eccetera.
Alla luce di queste evidenze, per il comune cittadino di Roma, Berlino, Madrid o Parigi, è difficile capire perché vi sia qualcuno che ancora oggi insiste a chiedere più potere per certe istituzioni europee. Forse, sarebbe il caso di considerare un nuovo paradigma. Magari costituito, da un lato, da meno burocrazia, meno tasse e meno centralizzazione del potere; e, dall’altro, da più libertà, più legalità e più responsabilità in capo a chi amministra il potere o, in una parola, da più moralità.

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