Kamala Harris, il futuro primo presidente degli Stati Uniti donna e di colore?

L’autore dell’articolo, Gigi Morello, è nato a a Torino e ha vissuto diversi anni negli Usa. Musicista, didatta e regista televisivo musicale, ha scritto per diverse testate specializzate nel settore musicale. Ha fondato e diretto progetti umanitari no profit e riceve dalla Croce Rossa Italiana encomi per tre diverse iniziative. Ha pubblicato nel 2020 due libri dal titolo ‘Alleanza Anti Casta’ e ‘Illuminismo Illuminato per Tempi Oscuri’, editi da Amazon. Il 4 luglio 2020 ha Fondato ‘Sogno Americano’ il primo Movimento Americanista Italiano.

 

Gli States hanno per ora un nuovo presidente: Joe Biden.

Un presidente eletto con un’elezione controversa e non del tutto chiara anche ora, all’insegna di sistemi di voto deboli e volutamente incontrollabili. Un’elezione preceduta da una campagna elettorale che ha visto coalizzati gli elementi apparentemente più disparati all’insegna di un ‘tutti contro Trump’ piuttosto che un ‘tutti per Biden’.

Per contrastare un personaggio forte e amato da milioni di americani come Donald J. Trump si doveva trovare qualcuno che avesse un nome che potesse essere almeno paragonabile, e che potesse essere ‘relativamente nuovo’ in modo da non avere lati deboli esposti che altri personaggi come la Clinton notoriamente hanno.

Che Biden potesse essere quel nome è un fatto. Come vicepresidente dell’ex amministrazione Obama aveva la visibilità riflessa necessaria per ottenere la nomina, ma senza mai essere stato sotto ai riflettori direttamente come la Clinton.

Se osserviamo Biden nel suo passato politico lo troviamo molto meno evidente della candidata che già perse le elezioni contro Trump nel 2016, Hillary Clinton, un personaggio molto più presente politicamente e molto più prestante di Biden.
Biden non è mai stato un personaggio di spicco della scena politica americana. È sempre stato un gregario. Un gregario ora anziano, sul viale del tramonto, anche fisicamente.

Infatti che Biden abbia mostrato già in campagna elettorale dei cedimenti dal punto di vista fisico non è una cosa da dovere dimostrare ulteriormente.
E questo non è motivo di scherno nei suoi confronti. Riuscire a diventare anziano è una cosa nobile ed ambita, ma d’altronde una condizione psicofisica eccellente è anche un prerequisito fondamentale per occupare il posto di commander in chief della più grande nazione libera della civiltà occidentale. Il XXV Emendamento è chiaro in proposito… certo questo lo sa benissimo chi ha proposto appositamente Biden per la carica.

Ma la domanda è: è veramente Biden l’uomo che è stato designato per condurre come presidente l’America nei prossimi anni?

La risposta è assolutamente no.

Kamala Harris non avrebbe mai potuto vincere le primarie presidenziali se fosse stata candidata come presidente degli Stati Uniti d’America. Punto. Troppo schierata da sempre con l’area radicale di sinistra per essere supportata dall’americano medio.

Ma Kamala Harris è il perfetto personaggio che, usato da qualcuno, potrebbe rappresentare quel ‘governo fantoccio’ tanto caro a chi sta dietro alla sua ‘nomina’ come futuro presidente degli Stati Uniti.

Non troppo visibile perché qualcuno abbia già investigato abbastanza su di lei come è stato fatto su Hillary Clinton: lei è relativamente ‘pulita’.

Ma Kamala è anche una donna che deve tutto a coloro che l’hanno fatta arrivare in alto.

Troppo coinvolta nelle trame di potere e con un armadio pieno di scheletri da renderla praticamente suddita di quelli che l’hanno fatta salire sul podio di un apparente secondo posto in graduatoria.

Apriamo questo armadio e mostriamo alcuni scheletri.

L’armadio di Kamala Harris

Negli anni 90 la sua carriera politica è iniziata in qualità di vice procuratrice distrettuale della contea di Alameda, in California.

Nel 1994 ha avuto una relazione sentimentale con il portavoce della California Assembly Willie Brown, un politico 30 anni più vecchio di lei, che è stato eletto sindaco di San Francisco due anni dopo.

Ed il suo amato l’ha poi nominata membro dello Unemployment Insurance Appeals Board dello Stato e in seguito della California Medical Assistance Commission.

Nel 1998, sempre sotto il mandato di Brown, è diventata assistente procuratrice di San Francisco, assunta dal procuratore democratico Terence Hallinan, scomparso nel 2020.

Ma quello che avviene nel 2002 è il punto dove è bene iniziare a scavare.

Nel 2002 si è messa in contatto con Mark Buell, uno dei più grandi finanziatori del Partito Democratico. Il suo piano era quello di candidarsi contro lo stesso Terence Hallinan che l’aveva assunta pochi anni prima, mordendo la mano di chi l’aveva aiutata, anche se dello stesso partito politico.

Buell si è proposto di farle da responsabile finanziario per la campagna elettorale per raccogliere più di 150 mila dollari per battere Hallinan, la più alta somma mai raccolta per quella carica.
Ma la somma raccolta infine ha superato di gran lunga i 150 mila dollari.

Così come ha superato il limite imposto dalla legge di Spesa Volontaria per una campagna elettorale, fissato per 211 mila dollari, ricevendo solo un piccolo rimprovero nel 2003 da parte della San Francisco Ethics Commission perché ‘non aveva intenzione di violare la legge’ ma subendo quella che all’epoca era considerata la più alta sanzione pecuniaria per quella legge: la Ethics Commission le ha imposto 34 mila dollari tra sanzioni e misure correttive, e le ha ordinato di sostenere inserzioni a pagamento su quotidiani per informare gli elettori che aveva superato il limite di spesa.

Durante la campagna la Harris ha attaccato duramente il suo ex mentore Hallinann in tutti i modi possibili, incluso quello del permettere metodi brutali da parte della polizia (vi ricorda qualcosa?).

E naturalmente ha vinto. I soldi alla fine fanno la differenza. Quindi abbiamo una paladina dei poveri e degli emarginati che viene eletta procuratrice distrettuale grazie al più grande finanziamento elettorale mai visto nella città del Golden Gate Bridge.

Non puzza un pochino?

Eh si, ma non è tutto.

Perché nel 2002 è iniziato un sodalizio: qualcuno ha notato questa giovane ed intraprendente che non si fa scrupoli a correre contro il proprio stesso mentore.

Ma prima è utile tornare a Mark Buell, il primo grande finanziatore della Harris. Se la Harris giocava all’epoca come terzino in serie B, Mark Buell era un goleador in nazionale. Influence Watch lo riporta come un ‘Mega donatore del Partito Democratico’. Consigliere fidato di Hillary Clinton, co-fondatore del famoso marchio di abbigliamento ‘The North face’ è uno dei soci fondatori ed un membro di spicco della Democratic Alliance, fondata agli inizi del ventunesimo secolo, che ha finanziato con cifre dell’entità di centinaia di milioni di dollari cause di sinistra durante gli ultimi 15 anni.

E arriviamo alla Democratic Alliance, forse il più grande cartello di finanziamento radicale in America. Viene definito dalla testata Politico come ‘il Club di donatori liberali più potente della nazione’.

Guardando il sito della Democratic Alliance non appare in modo evidente che è stato fondato da George Soros nel 2005. Sì, lo stesso magnate di un’apparente sinistra progressista, quello che divenne famoso in Italia nel 1992 per avere fatto svalutare la lira italiana durante il famoso ‘mercoledì nero’.

Tra le varie cause che sono state sovvenzionate da questo ente di raccolta fondi a scopi politici troviamo Black Lives Matter e molti altri gruppi di sinistra anche in odore di estremo.

Black Lives Matter e Kamala Harris finanziati contemporaneamente? Ma abbiamo anche la Clinton come membro di spicco di questa società. E la lista continua.

Ma come funziona questa potente lobby di raccolta fondi per far vincere con i soldoni le cause della sinistra che dice di battersi per i poveri e gli emarginati, quelli che i soldoni invece non li vedono nemmeno con il lanternino?

Secondo Politico, ad ogni membro della suddetta lobby è richiesto (quindi attenzione alle parole, è un requisito non un’opzione) di versare ai gruppi riconosciuti legittimi dall’alleanza, la somma annuale di 200 mila dollari.

Quindi un bel club esclusivo dove anche solo cento membri potrebbero finanziare i gruppi satelliti della sinistre per 20 milioni di dollari annuali.
Ma i membri sono molti più che cento.

E al vertice di questa Organizzazione troviamo, oltre a George Soros, personaggi come Tom Steyer, fondatore di Farallon Capital (finanziaria che gestisce circa 20 miliardi di dollari), co fondatore della Onecalifornia Bank e di molteplici altri contenitori di denaro, e quindi di potenziale potere.

La Democratic Alliance ha donato a cause di sinistra circa 800 milioni di dollari solamente tra il 2017 ed il 2018.

Non si sa quanti di questi siano andati a finanziare vari gruppi Anti Trump o Pro Biden nel 2020, ma è lecito supporre che siano molti.

I più di 200 mila dollari donati per la campagna elettorale della Harris all’inizio del suo sodalizio con coloro che si sono formalizzati pochi anni più tardi nella Democratic Alliance ora sembrano noccioline.

Perché se il finanziamento per una carica a procuratore distrettuale era la cifra mai vista prima a San Francisco, una cifra che superava i duecentomila dollari, è lecito interrogarsi quale sia il costo per finanziare una campagna elettorale a livello nazionale.

Questo in confronto alle noccioline è il prezzo al Kilo di una bistecca di Kobe (dai 100 ai 1000 euro al kg) servita su di un piatto d’oro zecchino con diamanti incastonati.

Torniamo quindi alla Harris, finanziata da un gruppo nemmeno occulto di megamiliardari stranamente amici dei poveri.

Avrà un grosso debito di riconoscenza verso qualcuno, e se questo qualcuno presenta un conto di 200 mila euro annuali ai sui singoli membri senza cariche, quale conto potrà presentare a qualcuno che è stato portato alla carica più importante americana, eccetto quella del presidente stesso?

Potrà la Harris di nuovo girarsi ed attaccare la mano che l’ha sfamata, come ha fatto con Terence Halinan quasi vent’anni fa?

Potrà ignorare i piaceri che prima o poi qualcuno le chiederà di fare agli amici degli amici?

No. Anche se volesse. Nessuno distribuisce miliardi senza richiedere prima o poi qualcosa in cambio. La fatidica richiesta ‘che non puoi rifiutare’. Dura Lex sed Lex.

Ma torniamo sull’ipotesi iniziale. La Harris è compromessa? Per arrivare dove è arrivata ha stretto un patto con il diavolo, uno di quelli che firmi con il sangue? Uno dal quale non torni più indietro? Un patto che le ha fornito il denaro necessario per arrivare dove è arrivata?

Ma il piano è avere la prima donna di colore al vertice dell’America. Protetta da eventuali accuse sulla sua futura malagestione tramite i soliti luoghi comuni del ‘sessismo’ e del ‘razzismo’.

Lei è soprattutto qualcuno che deve solo ringraziare altri per essere dove si trova ora, e questi non sono certamente i cittadini americani comuni.

E dove lo mettiamo Biden?

Lo si usa finché non servirà più. La Costituzione americana permette il subentro del vice presidente in molteplici occasioni.

Una tra tutte è il XXV emendamento che permette il subentro del vice presidente al Presidente in carica proprio per le esatte ragioni di inidoneità psicofisica, sintomi già osservati in Biden durante la campagna elettorale.

Subito dopo l’elezione di Biden c’è stata una grande manifestazione Antifa. Evidente che questo gruppo di estrema sinistra non voglia Biden: non è lui il paladino degli Antifa. Non è abbastanza. Solo la Harris può placare i suoi amici. Solo lei è legittimata a farlo. Biden dovrà cadere.

Perché Biden, forse, non è l’uomo che è stato eletto come presidente dalla Democratic Alliance. Lui è solo il ponte per arrivare ad una futura presidentessa che altrimenti non sarebbe mai riuscita ad arrivare a quella posizione.

Così che la Harris, finanziata dalle stesse sorgenti che sponsorizzano Black Lives Matter possa regnare indisturbata in un finto governo vicino al popolo, per ripagare coloro che l’hanno messa lì.

Concretizzando l’alleanza dove i turbocapitalisti realizzano il loro grande sogno di alleanza di interesse: un finto governo vicino al popolo in cui quasi tutti siano egualmente poveri, quasi tutti egualmente privati del diritto di parola. Quasi tutti zitti e buoni a lavorare per lo stesso tozzo di pane. O quasi tutti a fare la stessa eguale fame.

Tranne naturalmente l’elite che l’ha generata!

Si trasformano gli Usa in una grande Cina 2.0 che cancellerà la società civile occidentale dalla faccia della terra.

 

Le opinioni espresse in questo articolo rappresentano il punto di vista dell’autore e non riflettono necessariamente quello di Epoch Times.

 
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