La democrazia, quella fantasia sempre così fugace, ha la tendenza a cadere in agitazione prima di crollare, ansimando e ansimando come un tricheco senza fiato.
John Adams, da sempre profeta di sventura, una volta scherzò: «La democrazia non dura mai a lungo. Presto si spreca, si esaurisce e si uccide». Si tratta di un sentimento che echeggia attraverso i corridoi del tempo.
E suona molto simile al rutto di un senatore dopo un banchetto nell’antica Roma, dove la democrazia era più un concetto per battute filosofiche che una pratica.
In effetti, Roma, con tutto il suo sfarzo e il vorace appetito per l’autoindulgenza, funge da ammonimento. È un percorso ben battuto.
A Roma c’era una volta il Giovenale. Non il solito oppositore, ma un uomo la cui lingua era così tagliente da poter tagliare il tessuto morale della società con una semplice battuta.
«Pane e circhi», schernì. «Mantieni le masse sazie e intrattenute, e non fischieranno contro di te».
Come un grande impero è appassito a causa dell’opulenza
E così, Roma si gonfiò, non solo nell’ombelico, ma nel suo senso di sé, mentre il tempo libero diventava il passatempo nazionale.
Allora, oltre 200.000 anime, con le dita appiccicose a causa della pasticceria, trovavano il senso di alzare un dito (a meno che non fosse per segnalare un’altra porzione) del tutto estraneo.
Roma si trasformò in un grande palcoscenico, dove quasi ogni giorno era festa, e i cittadini erano interpreti, spettatori o impegnati nel vomitorio a fare spazio alla portata successiva.
Schermaglie navali in laghi improvvisati, corse di carri che facevano vergognare i veloci e i furiosi e un teatro così osé da far sembrare pudica una statua di Venere, erano tutti finanziati dalle stesse persone che l’hanno progettato per distrarre.
Novantatré giorni di spettacolo puro e ogni anno, trasformando Roma da repubblica in una produzione stravagante, dove la democrazia non era altro che un sussurro soffocato dal ruggito della folla.
Suona familiare?
Quando il potente braccio dell’impero cominciò ad assomigliare meno a un temibile gladiatore e più a un debole vecchio che agitava un bastone contro giovani turbolenti, il calendario iniziò ad assomigliare a una fattoria di funghi dopo una pioggia primaverile; ogni nuova festività spuntava per brindare alle vittorie di cui la maggior parte aveva dimenticato il gusto.
Sembra decisamente contemporaneo, con il mondo che sta finendo i giorni di calendario e deve celebrare la domenica di Pasqua nel Trans Awareness Day, un evento che sicuramente ha fatto rotolare gli antichi nei loro sarcofagi stravaganti decorati, perplessi dall’enigma moderno del «sovraffollamento del calendario».
Gli imperatori, quegli illustri leader di uomini, erano ridotti a protagonisti di quest’opera comica, ricoprendosi di sorrisi e fingendo uno zelo per i giochi che potrebbe rivaleggiare con l’entusiasmo di una spugna bagnata per un viaggio nel deserto.
In questa farsa, le cerimonie un tempo sacre ora somigliavano a un confuso rimescolamento di giorni, dove l’unica cosa più sconcertante delle festività stesse era la capacità della popolazione di tenere traccia di ciò che stava celebrando.
Erano finiti i tempi del governo dal pugno di ferro di Giulio Cesare o dell’astuto Augusto. Ora, lo scettro era nelle mani traballanti di personaggi come Commodo e Settimio Severo, i cui regni erano stimolanti come una birra sgasata in una giornata calda.
La leadership, una volta un vino robusto, era diventata un aceto acquoso, con gli imperatori che gonfiavano il loro ego e le loro casse, scatenando la frenesia della popolazione con quello che equivaleva a poco più che un patriottico battersi il petto e sventolare bandiere.
Gli spettacoli, nel frattempo si trasformarono in una grottesca sfilata di bizzarro e barbarico, in netto contrasto con la realtà in dissolvenza dell’occupazione e della proprietà terriera, che diventarono materia di fiabe.
Perfino il risoluto Marco Aurelio guardò impotente mentre la moneta dell’impero diventava fragile quanto le moderne promesse di restrizione fiscale, riducendosi sia in termini di dimensioni che di valore.
Pane e circhi del presente
Facciamo un salto al presente e il circo non è tanto finito ma ha cambiato i costumi.
Il Colosseo di oggi è pieno di Drag Time Story Hours e un calendario così pieno di celebrazioni di ogni striscia di orgoglio e cultura che potrebbe essere necessaria una guida per esplorarlo.
I sussidi piovono come il finale di uno spettacolo pirotecnico, assicurando che la popolazione rimanga troppo sazia di pane e abbagliata dal circo degli oltraggi dei reality e delle sensazioni virali per notare il terreno che si muove sotto i loro piedi.
In questa grande festa del presente, c’è da chiedersi se siamo diventati spettatori della nostra versione della caduta di Roma, strizzando gli occhi alle luci abbaglianti, troppo divertiti per notare che siamo appollaiati sull’orlo della più grande stupida caduta della storia.
Il grande banchetto dei nostri tempi finirà con un rutto di rimpianto?
Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente quelle di Epoch Times
Nicole James è una giornalista freelance per The Epoch Times con sede in Australia. È una pluripremiata scrittrice di racconti, giornalista, editorialista ed editrice. Il suo lavoro è apparso su giornali tra cui The Sydney Morning Herald, Sun-Herald, The Australian, Sunday Times e Sunday Telegraph. Ha conseguito una laurea in comunicazione con specializzazione in giornalismo e due lauree post-laurea, una in scrittura creativa.
Versione in inglese: Bread and Circuses: What It Means for Once-Great Nations