Disordini di massa, 1966 vs. 2020. La furia delle Guardie Rosse di Mao

Di David B. Kopel

Questa è la seconda parte di una serie che analizza le similitudini tra la Rivoluzione Culturale Cinese e gli Stati Uniti di oggi (vedi parte 1).

Inizialmente la violenza della Rivoluzione Culturale aveva luogo solo nei campus. 

Le folle di studenti iniziarono a definirsi ‘Guardie Rosse’, dal momento che agivano ‘a guardia’ del presidente Mao. Sotto il comunismo non poteva esserci nessuna società civile: non doveva esistere nessuna organizzazione al di fuori dello Stato. Tutti gli enti di beneficienza, religiosi, sindacali e gli altri gruppi indipendenti erano stati eliminati o erano sotto il controllo dello Stato. Le Guardie Rosse, però, si auto-proclamarono tali senza chiedere l’approvazione ufficiale del Partito, dimostrando in effetti una certa audacia.

La classe ‘rossa’ era già organizzata, grazie all’addestramento militare nei campi estivi e nei poligoni di tiro. E Mao la infiammava di continuo: «Non dimenticate mai la lotta di classe».

Vestiti con le uniformi militari dei loro genitori e orgogliosi della loro purezza di sangue, attaccavano gli studenti di classe ‘nera’. Alle Guardie Rosse, figlie di militari e politici di rango elevato, era stato infatti detto dai genitori che i revisionisti del comunismo erano avversari di Mao. Perfettamente indottrinata al maoismo, la classe superiore di studenti era fanatica della lotta di classe violenta. 

All’inizio i quadri politici adulti ed altri resistettero, cercando di soffocare l’insurrezione violenta. Il direttivo del Pcc a Pechino inviò ‘gruppi di lavoro’ nelle scuole superiori e nelle università, per cercare di guidare la Rivoluzione Culturale, e alcuni di questi gruppi cercarono di fermare gli attacchi al personale scolastico. «Tuttavia, senza l’ausilio dei fucili, i loro sforzi erano destinati a perdere», scrive lo storico Fang Zhu, in Gun Barrel Politics: Party-Army Relations in Mao’s China. Pechino era pienamente sotto il controllo militare maoista. 

A Pechino, il 1° agosto 1966 aprirono i lavori del plenum, l’assemblea plenaria del Comitato Centrale del Pcc, presidiata dai militari del ministro della Difesa Lin Biao. Un maresciallo dell’Esercito Popolare di Liberazione (Epl) annunciò all’assemblea che i militari sarebbero intervenuti contro ogni atto di dissenso. Come illustrò un discorso di Lin Biao diversi giorni dopo, la Rivoluzione Culturale poggiava su due capisaldi: il pensiero di Mao e il potere dell’Epl.

Il giorno in cui iniziarono i lavori del plenum, Mao scrisse una lettera aperta indirizzata ad alcune Guardie Rosse, che diceva: «La rivoluzione non è un crimine, ribellarsi è giustificato». Il 5 agosto 1966, Mao affisse il proprio manifesto a caratteri cubitali all’Università di Pechino: «Bombardate il quartier generale». La violenza dilagò. 

Il 18 agosto 1966, un milione di giovani si ritrovarono a Pechino in piazza Tiananmen per una manifestazione in favore della Rivoluzione Culturale. Lin Biao, ribadendo il contenuto dell’editoriale del 1° giugno sul Quotidiano del Popolo, li esortò a «distruggere i Quattro Vecchi: tutte le vecchie idee, le vecchie culture, i vecchi usi e i vecchi costumi della classe sfruttatrice».

Due settimane prima, aveva avuto luogo il primo omicidio in nome della Rivoluzione Culturale. La vittima era Bian Zhongyun, un’assistente direttrice della Scuola Media Femminile, una scuola collegata all’Università Normale di Pechino. Per quattro ore fu torturata a morte da una folla di studenti.

Durante la manifestazione di Tiananmen, ad uno dei leader uccisori —figlia di uno dei più alti generali della rivoluzione – fu conferito l’onore di mettere la fascia di Guardia Rossa al braccio del presidente Mao. Mao cambiò il nome di nascita di lei da Binbin (soave o raffinata) in Yaowu (marziale). La scuola in cui ebbe luogo l’omicidio cambiò il suo nome in ‘Scuola Rossa Marziale’.

Song Yaowu divenne immediatamente una celebrità nazionale, con la sua immagine riprodotta ovunque. In seguito, nel corso della Rivoluzione Culturale, suo padre, il Generale Song Renqiong, sarebbe stato epurato, per poi essere reintegrato nella sua carica da Deng Xiaoping, dopo la morte di Mao. Nel 1989 sostenne strenuamente Deng nell’uso letale della forza per porre fine alle proteste democratiche di piazza Tiananmen. La figlia Song Binbin/Yaowu, studiò poi al Massachusetts Institute of Technology e lavorò per il Massachusetts Department of Environmental Protection. Nel 2013 ha chiesto scusa per le sue azioni. 

Wang Rongfen, che studiava tedesco all’Istituto di Lingue Straniere notò delle somiglianze tra il discorso di Lin Biao e il discorso di Hitler a Norimberga. Inviò una lettera al Presidente Mao: «La Rivoluzione Culturale non è un movimento di massa. È un uomo solo che, armato, manipola il popolo». Fu condannata all’ergastolo. Le manette che le misero in prigione avevano degli spuntoni che le martoriavano i polsi, e doveva rotolarsi sul pavimento per mangiare. Fu rilasciata nel 1979, tre anni dopo la morte di Mao: il suo spirito era indomito.

Le masse studentesche attaccavano gli insegnanti anche nelle scuole primarie, frequentate da ragazzi di meno di 13 anni. Il Ministro per la Pubblica Sicurezza diede ordine alla polizia di sostenere le Guardie Rosse. «Non dite che è sbagliato che loro prendano a randellate i cattivi soggetti. Se arrabbiati pestano qualcuno a morte, così sia». Perfino quando le Guardie Rosse assalivano la polizia, questa non avrebbe dovuto reagire. 

Mentre all’inizio gli omicidi furono perpetrati da studenti solo nell’area di Pechino, quando gli studenti tornarono a casa dai disordini di Tienanmen, i cortei letali si diffusero a livello nazionale. Le Guardie Rosse furono dichiarate riserviste dell’Epl, a cui fu ordinato di assistere il loro viaggio. Per il resto dell’anno fu loro garantito vitto, alloggio e trasporto gratuito su treni e bus: un bel cambiamento rispetto alle abituali regole comuniste contro le partenze dalle città o dai villaggi in cui si era residenti. 

Dodici milioni di Guardie Rosse viaggiarono verso Pechino per molti mesi consecutivi, e attesero settimane fino a che Mao apparve al balcone e li riconobbe, nel corso di sette successive manifestazioni dal 31 agosto al 7 novembre. Treni e autobus terribilmente sporchi, sovraffollati e così via, scatenarono un’epidemia di meningite a Pechino, che uccise 160 mila persone. Non c’erano soldi per i vaccini, giacché la spesa del governo veniva destinata alla Rivoluzione Culturale. I vaccini furono in seguito donati dai governi Europei.

Disordini di massa e libri in fiamme

Per quanto alcuni studenti cogliessero semplicemente l’occasione per viaggiare gratis e partissero da Pechino per visitare luoghi storici o naturalistici, molti altri tornarono a casa da sopraffattori. Sotto il comando statale, le folle inferocite vagavano per le strade, attaccando donne per semplici comportamenti borghesi quali indossare vestiti eleganti o avere i capelli lunghi. Saccheggiavano abitazioni, soprattutto della classe ‘nera’, ma anche ‘bianca’ o ‘rossa’. Poveri venditori ambulanti, barbieri, sarti e qualunque altro operatore di mercato non statale venivano attaccati e annientati. Molti di loro furono mandati in rovina o ridotti in miseria. Nomi di strade riferiti al passato furono rimpiazzati con nomi comunisti. Manufatti storici, monumenti pubblici, siti storici non comunisti, edifici religiosi, tombe e manufatti non comunisti furono distrutti. 

Lo stesso crudele destino colpì i gatti – che si supponeva esprimessero decadenza borghese – e i piccioni allevati per gareggiare. I cani erano stati eliminati quasi tutti nel 1950 per motivi sanitari.

Le biblioteche furono saccheggiate, compresi rari manoscritti storici: «Spesso intere sezioni di biblioteche – sezione cinese, occidentale e classici russi – venivano bruciate in enormi falò all’aperto», scrive Anne F. Thurston in: ‘Nemici del Popolo: il Calvario degli Intellettuali nella grande Rivoluzione Culturale Cinese’. E come documentato da Rebecca Knuth in ‘Libricidio: la Distruzione di Libri e Biblioteche Sponsorizzata dai Regimi nel XX Secolo’ la distruzione dei libri fu un preludio agli omicidi di massa nella Germania Nazista, nella Bosnia controllata dai Serbi, durante la Rivoluzione Culturale, in Tibet sotto il dominio cinese e in Kuwait sotto Saddam Hussein. 

Furono condotte perquisizioni porta a porta in cerca di armi nascoste, libri, articoli religiosi, monete d’oro e prove di tradimento. Se veniva trovato qualcosa, le vittime venivano torturate. Con le parole dello storico Frank Dikötter, «Ogni notte si sentiva picchiare alle porte in modo rumoroso e terrificante, oggetti in frantumi, studenti che sbraitavano e bambini che piangevano. Ma la maggior parte della gente comune non aveva idea di quando le Guardie Rosse sarebbero arrivate, e quale oggetto innocuo sarebbe stato considerato sospetto. Vivevano nel terrore». 

Molti distruggevano preventivamente libri e manufatti, nel timore che le Guardie Rosse li trovassero.  Comuni furfanti si atteggiavano a Guardie Rosse per unirsi al saccheggio. La maggior parte delle vittime era gente comune, ma erano attaccati anche ufficiali di partito, soprattutto se collegati a superiori precedentemente epurati.

Perfino sotto Stalin e Hitler, essere istruiti non era di per sé un’offesa. Un ricercatore chimico o uno studioso di lettere antiche non correvano rischi particolarmente alti. Ma nella Rivoluzione Culturale Cinese essere intellettuale, istruito o in grado di parlare una lingua straniera, poteva essere sufficiente per essere ucciso, torturato o mandato ai lavori forzati.

Il programma di confisca delle armi iniziato nel 1949 si rivelò essere stato di successo. A Wuhan, la più grande città della Cina continentale, 2.000 abitazioni delle classi ‘nere’ furono saccheggiate. Le Guardie Rosse trovarono oro, porcellane, opere d’arte e altri valori in abbondanza, ma solo 22 fucili.

Sebbene le Guardie Rosse usassero una varietà di armi improvvisate, le principali erano semplici cinture di pelle con borchie di ottone usate per fustigare le vittime, spesso infliggendo gravi ferite. Talvolta le vittime venivano costrette a leccare il proprio sangue dalle strade. 

Ogni passante poteva essere avvicinato dalle Guardie Rosse, obbligato a citare frasi del presidente Mao e poi castigato sul posto per non averne memorizzate abbastanza. 

Cosa poteva fare una persona aggredita dalla folla? Resistere poteva essere in poco tempo letale, dal momento che la polizia non sarebbe intervenuta. Se la vittima riusciva in qualche modo a resistere, l’autorità – che deteneva praticamente tutte le armi – avrebbe ucciso il resiliente o lo avrebbe spedito come schiavo in un campo di lavoro.

Come scritto da Dikötte: «Abbastanza presto tutti capirono che l’unica cultura proletaria accettabile, era quella del presidente Mao». Le sue parole e il suo ritratto erano dappertutto, su giganteschi manifesti e riprodotte a tutto volume su altoparlanti sparpagliati ovunque. 

Questo saggio è adattato da David B. Kopel, “The Party Commands the Gun: Mao Zedong’s Arms Policies and Mass Killing,” pagine 423–521, nel capitolo 14 online di “Firearms Law and the Second Amendment: Regulation, Rights, and Policy,” di Nicholas J. Johnson, David B. Kopel, George A. Mocsary e E. Gregory Wallace. I riferimenti integrali alla storia Cinese possono essere ivi trovati. 

Le posizioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente le vedute di Epoch Times.

Traduzione di Gaetano D’Aloia

 

Articolo in inglese: Rage Mobs 1966 v. 2020

 
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