La rivoluzione culturale comunista, dal 1966 al 2020

Parte 1: L’inizio della rivoluzione culturale in Cina

Di David Kopel

Questa è la prima parte di una serie che analizza le similitudini tra la Rivoluzione Culturale Cinese e gli Stati Uniti di oggi.

Delle folle inferocite possono imprimere grandi cambiamenti ad una nazione, in solo pochi mesi. E molto del loro potere si basa sull’incapacità delle loro vittime di contrattaccare.

Anche se la Cina del 1966 era molto diversa dagli Stati Uniti di oggi, la Rivoluzione Culturale Cinese del 1966 e quella americana del 2020 hanno molto in comune.
La Rivoluzione Culturale Cinese fu avviata dal presidente del Partito Comunista e dittatore cinese Mao Zedong. L’obiettivo di Mao era di distruggere ogni cosa e ogni uomo che rappresentasse un limite all’imposizione diretta della sua volontà sul popolo cinese.

Mao Zedong divenne dittatore nel 1949, dopo aver condotto il Partito Comunista Cinese alla vittoria in una guerra contro il governo nazionale. Quindici anni dopo, Mao capì che la rivoluzione era incompleta: i comunisti avevano ucciso, ridotto in schiavitù o ridotto in miseria i loro nemici di classe, come piccoli imprenditori e proprietari terrieri; tuttavia, attorno la metà degli anni ’60 fu chiaro che la persecuzione della borghesia non aveva estirpato le idee della borghesia, come ad esempio la libertà di mercato, di lavoro e di pensiero. 

Inoltre, anche tra gli alti ranghi del Partito Comunista Cinese (Pcc) c’erano dei ‘revisionisti’. Essi credevano, in segreto, che la versione post-stalinista del comunismo introdotta in Unione Sovietica da Nikita Krusciov, fosse più pragmatica di quella di Stalin e Mao. Il regime di Krusciov era totalitario, ma paragonato a quello maoista era più stabile e burocratizzato, molto meno incline a cimentarsi in programmi irrealistici. Inoltre, ai sudditi ubbidienti era consentita più autonomia nelle piccole faccende della vita quotidiana. 

Attaccare la cultura

I preparativi della Rivoluzione Culturale cominciarono nel 1963, con accuse nei confronti dell’opera classica cinese.

In Cina, l’opera è sempre stata popolare presso il pubblico, qualsiasi fosse il livello di istruzione. Ebbene, la quarta moglie di Mao, un’attrice di Shanghai conosciuta come ‘Madame Mao’ condusse campagne contro l’opera pre-1949 accusandola di scorrettezza politica [l’espressione ‘politicamente corretto’ è nata infatti nella Cina comunista e si riferiva a un qualcosa che era in linea con i dettami politici del Partito Comunista, ndr].

Quando ebbe terminato, gli spettacoli artistici furono limitati a cinque opere, due balletti e una sinfonia: le opere ‘modello’ post-1949 rappresentavano mera propaganda che non escludevano innovazioni quali ad esempio ballerine sulle punte con fucili Kalashnikov.

Qualcuno a quel tempo avrà pensato che la correttezza politica sarebbe stata un problema solo per l’opera. Ma, molto presto, si sarà reso conto di essersi sbagliarsi.

Nella visione di Mao, il principale problema era che la gente non stava compiutamente pensando da socialista: «Gente morta controlla ancora l’arte e la letteratura», si lamentava il dittatore con il suo medico personale nel 1963. 

Stando alle memorie del dottor Li Zhisui, Mao era furioso coi membri del Partito che stavano «promuovendo arti capitalistiche e feudali, ma ignorando le arti socialiste».

Il bersaglio erano commediografi e altri intellettuali. Il commediografo più diffamato fu quello inizialmente elogiato dallo stesso Mao per l’opera del 1961 Hai Rui licenziato dall’ufficio (o Il licenziamento di Hai Jui dall’ufficio postale). La storia era basata su un eroe storico del 1565 imprigionato perché accusò l’imperatore Ming di non essere in sintonia con la gente e di non comprendere la loro sofferenza.
Tuttavia, in Cina c’è una lunga tradizione letteraria dell’«indicare il gelso per denigrare la cenere»: in altre parole criticare B, per criticare indirettamente A. Evidentemente, alla fine Mao capì di essere visto come l’incompetente imperatore egoista e non come l’onesto e coraggioso funzionario pubblico. 

L’obiettivo di Mao con la Rivoluzione Culturale era di rovesciare lo stesso Pcc, che era da sempre strettamente legato ai militari (l’Esercito Popolare di Liberazione, Epl). Egli sapeva che la maggioranza nel direttivo era contraria ai suoi piani, così come molti dei comitati provinciali e locali del Pcc. Quindi realizzò che aveva bisogno dell’appoggio dell’Epl. Fortunatamente per Mao, il ministro della difesa Lin Biao era totalmente soggiogato a lui. 

Il principale bersaglio di Mao nella rivoluzione culturale era il secondo più alto ufficiale nel Pcc, Liu Shaoqi. Alla conferenza del partito comunista del 1962, Liu si era guadagnato un’ovazione per aver coraggiosamente denunciato la carestia causata dal ‘Grande Balzo in Avanti’ in quanto «disastro causato dall’uomo». Il discorso pose fine alla pretesa di Mao che la peggior carestia nella storia dell’uomo fosse dovuta unicamente al maltempo.

Ugualmente bersaglio della Rivoluzione Culturale fu Deng Xiaoping, che aveva anch’egli obbiettato sugli eccessi del Grande Balzo in Avanti, seppure in maniera più accorta di Liu.
«Perché Liu, Deng e i loro affiliati nella direzione del Partito consentirono questa sfacciata manipolazione politica ai loro danni senza obiettare? La risposta é: intimidazione militare», scrive lo storico Fang Zhu, in Gun Barrel Politics: Party-Army Relations in Mao’s China.

Poco prima dell’avvio della Rivoluzione Culturale, dei soldati leali a Lin furono trasferite a Pechino ad accerchiare la città. E delle unità commando occuparono mezzi di comunicazione come stazioni radio e il Quotidiano del Popolo, l’unico giornale a diffusione nazionale ammesso, nonché il principale mezzo con cui gli ordini del Pcc venivano trasmessi alla popolazione. 

In aggiunta, truppe sotto il comando della guardia personale di Mao furono inviate per sorvegliare (formalmente proteggere) le case di tutti gli alti ufficiali nella cerchia dei leader del Pcc. Secondo Zhu, «Mao e Lin non sarebbero stati in grado di prevalere, almeno non facilmente, contro i loro oppositori al comando del partito senza la minaccia della forza».

Un nuovo sistema di classe

Per avviare la ‘Grande Rivoluzione Culturale Proletaria’ Mao usò le classi giovanili cinesi più privilegiate. In parte Mao aveva vinto la guerra del 1949 promettendo di abolire il vecchio sistema di classi, e lo aveva fatto. Lungi dal creare una società senza classi (presunto obiettivo del comunismo) Mao aveva invece istituito un nuovo sistema di classi, di tipo ereditario.

Tutti avevano un colore. La classe al vertice era di quelli che avevano combattuto nella rivoluzione e che appartenevano al Partito. Essi e i loro discendenti erano ‘rossi’. La classe più bassa era colorata di ‘nero’. Consisteva dei precedenti ‘borghesi’ e ‘proprietari terrieri’, non solo classe media e grandi possidenti, ma anche contadini e commercianti che realizzavano piccoli profitti prima della rivoluzione. La classe nera includeva anche persone che avevano rapporti col precedente sistema, come ad esempio gli impiegati del governo. Nel mezzo c’era la classe ‘bianca’: contadini apolitici, operai delle fabbriche in città e così via. 

In questo sistema, le classi erano ereditarie. Se i genitori erano rossi, anche il figlio lo era; se erano neri, anche il figlio lo sarebbe stato per sempre. Il matrimonio interclasse fu proibito nel 1950.

Il sistema di classi, nonostante questo, non era veramente stabile, specialmente in un clima d’implacabili accuse ed epurazioni. Negli anni ’30 e ’40, ad esempio, il Pcc aveva ordinato ad alcuni fedelissimi di infiltrare i sindacati nazionali dei lavoratori, fingendosi nazionalisti. Considerato il rischio che avevano corso, essi avrebbero dovuto essere indiscutibilmente tra i ‘rossi’. Durante la Rivoluzione Culturale però, dal momento che ognuno era alla caccia di ragioni per denunciare ogni altro, si andò a scavare nei registri delle ex spie nei sindacati lavorativi e queste furono perseguitate come presunti collaboratori dei nazionalisti.  

Più in generale, c’erano campagne di propaganda permanenti contro quattro categorie: precedenti proprietari terrieri, precedenti ‘ricchi’ agricoltori (ad esempio chi aveva una piccola azienda familiare), controrivoluzionari (cioè non-comunisti) e cattivi soggetti (persone che deviavano dall’ortodossia Pcc del momento). Le prime due categorie erano innegabilmente di sangue ‘nero’. Le seconde due erano sufficientemente elastiche da contemplarne l’accusa nei confronti di chiunque. Essere considerato un giorno come un ‘rosso’ per bene, non proteggeva necessariamente l’individuo o i suoi familiari dall’essere declassati un altro giorno, per essere uccisi oppure ridotti in schiavitù e spediti in un campo di lavoro.

Le scuole migliori erano riservate ai giovani della classe rossa. Gli studenti di queste scuole ricevevano formazione militare a partire dalle elementari, sparando pallottole ad aria compressa alle immagini di Chiang Kai-Shek e di personaggi americani, per poi passare ai fucili nella scuola secondaria (Chiang era il capo del governo nazionalista sconfitto, e al tempo era ancora governatore dell’isola di Taiwan e rivendicava il ruolo di legittimo governatore della Cina).

Inizia la rivoluzione

L’inizio vero e proprio della Rivoluzione Culturale avvenne nelle scuole di Pechino riservate a figli dell’élite del Partito Comunista Cinese. Nelle scuole in generale, gli studenti di rango più elevato nutrivano risentimento per gli studenti di rango inferiore. Non avendo nessun privilegio di classe, gli studenti di rango inferiore lavoravano più duro e quindi sopravanzavano i loro superiori sociali. 

Come lo storico Frank Dikötter riporta nel suo libro La Rivoluzione Culturale: una storia del popolo, nella prima metà del 1966 gli studenti politicamente corretti capirono che stava succedendo qualcosa, leggendo tra le righe nel Quotidiano del Popolo. Così iniziarono a rovistare nelle librerie e «ben presto individuarono problemi con racconti, romanzi, film e opere […] Iniziarono ad apparire manifesti che mettevano in discussione la formazione di alcuni insegnanti».

La Rivoluzione Culturale era spesso propagandata con manifesti a caratteri cubitali e messaggi manoscritti a grandi lettere affissi al muro. Per mandare avanti il processo, gli alleati di Madame Mao cercarono gente all’Università di Pechino che scrivesse manifesti a caratteri cubitali accusando il presidente dell’università. Un fanatico di partito, incolto, Nie Yuanzi, e alcuni altri impiegati dell’università, raccolsero l’invito. Il 25 maggio 1966, affissero un manifesto a caratteri cubitali che accusava l’amministrazione dell’università di essere «Revisionista controrivoluzionaria filo-Chruščëv» nonché di essere composta da «fantasmi bovini e spiriti di serpente». Il bue fantasma, nelle credenze folcloristiche cinesi, è una creatura con le zanne, divoratrice di uomini.

Ebbene, il presidente dell’università, Lu Peng, fu fucilato il giorno successivo.

La Rivoluzione Culturale fu pubblicamente annunciata il 1° giugno 1966, con un editoriale del Quotidiano del Popolo che intimava alla gente di «spazzar via tutte i buoi fantasma e gli spiriti serpente» (tradotto anche in «demoni e mostri» oppure «mostri e abomini»).

Nelle scuole di tutta la Cina furono fermate le lezioni, cosicché gli studenti potessero attaccare i propri insegnanti. Il giorno seguente, il manifesto a caratteri cubitali di Nie Yuanzi fu pubblicato sul Quotidiano del Popolo, accompagnato da un editoriale che intimava alla gente di «opporsi, picchiare e annientare completamente» i revisionisti. 

Gli studenti furono incoraggiati ad affiggere manifesti a caratteri cubitali che accusavano gli insegnanti di pensiero revisionista. ‘Revisionista’ significava pensare come Chruščëv o come chiunque altro deviasse dal comunismo totalitario puro: la vita deve essere tutta politica ed era ammessa solo una linea politica. Spesso, ‘revisionista’ era solo un’etichetta per perseguitare chiunque, inclusi i maoisti più sinceri.

Folle di studenti picchiavano e umiliavano i loro insegnanti. Molti usavano armi improvvisate, spade da scherma o giavellotti. Spaventati, i professori iniziarono a denunciarsi tra di loro, dal momento che ogni insegnante ne sapeva più degli studenti a proposito dei suoi colleghi. 

 

Questo saggio è adattato da David B. Kopel, “The Party Commands the Gun: Mao Zedong’s Arms Policies and Mass Killing,” pagine 423–521, nel capitolo 14 online di “Firearms Law and the Second Amendment: Regulation, Rights, and Policy,” di Nicholas J. Johnson, David B. Kopel, George A. Mocsary e E. Gregory Wallace. I riferimenti integrali alla storia cinese possono essere ivi trovati. 

Le posizioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente le vedute di Epoch Times.

 

Articolo in inglese: Cultural Revolution 1966 v. 2020

 
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