La battaglia di Trump contro Cina e alta finanza

Immediatamente dopo l’elezione di Donald Trump, lo yuan cinese è sceso sotto il valore di supporto, arrivando a un tasso di 6.80 per dollaro: il più basso dal 2010.

La reazione del mercato non è particolarmente sorprendente, dato che Trump e i suoi consiglieri hanno da tempo accusato la Cina di disonestà nel commercio e di essere un manipolatore di valuta, promettendo l’imposizione di dazi sui beni cinesi come risposta al comportamento scorretto del Dragone.

Peter Navarro, membro dell’entourage di Trump, afferma che la Cina gode di un vantaggio disonesto, dal momento che ha standard di salute e sicurezza inferiori, e utilizza il lavoro forzato per mantenere competitivi i propri costi: «Se abbiamo imparato qualcosa dall’Organizzazione mondiale del commercio e dal Nafta, è che bisogna imporre regole ferree per quanto riguarda la salute dei lavoratori e la sicurezza sul lavoro», afferma.
Secondo Navarro, se la Cina non mette fine a queste pratiche, compresi i sussidi alle esportazioni e la manipolazione della valuta, gli Usa imporranno dazi compensativi sui prodotti cinesi. I dazi ridurranno le esportazioni cinesi negli Usa e faranno diminuire la domanda della moneta cinese.
«Quando Donald Trump parla di dazi, questi non sono l’obiettivo finale. L’obiettivo è usare i dazi come mezzo di negoziazione per ottenere la fine degli imbrogli. Ma se il comportamento disonesto non termina, imporremmo dei dazi difensivi».

COSA PUÒ FARE TRUMP?

Victor Sperandeo, presidente e Ceo di Alpha Financial Technologies, ritiene che gli Stati Uniti potrebbero ridurre il commercio tra i due Paesi, cosa che secondo lui danneggerebbe più la Cina che gli Stati Uniti: «Se noi compriamo 500 miliardi di dollari – spiega – loro devono comprare 500 miliardi di dollari». Gli Stati Uniti assorbono il 20 per cento delle esportazioni cinesi, per un valore di 484 miliardi di dollari nel 2015.

Altri commentatori pensano che Trump non riuscirà a implementare politiche fortemente protezioniste, perché non potrà ottenere il consenso del Congresso Repubblicano, tradizionalmente a favore del libero commercio.

Secondo Mark DeWeaver, autore di Animal Spirits With Chinese Characteristics, «grandi aumenti dei dazi sulle importazioni cinesi sono abbastanza improbabili. Invece probabilmente ci si concentrerà sul furto della proprietà intellettuale americana: un qualcosa che verrà ritenuto un problema serio dalla maggior parte delle persone in entrambi i partiti».

Jim Nolt, professore di relazioni internazionali presso l’Università di New York, ha affermato che se anche il governo di Trump riuscisse ad approvare sanzioni draconiane, la Cina potrebbe vendicarsi: «La Cina potrebbe agire in modo strategico, con sanzioni mirate alle aziende che si trovano negli Usa e che esportano, o che magari si trovano nei collegi elettorali di alcuni repubblicani di rilievo nel Congresso».

La Cina potrebbe anche creare problemi alle compagnie americane che operano nei suoi confini nazionali – come del resto ha fatto in passato – con indagini anti monopolio o altri generi di indagine.

Considerando questi fattori complicati, per far funzionare la propria politica commerciale, l’amministrazione Trump dovrà impegnarsi parecchio nell’ottenere buoni accordi con la Cina.

DEPREZZAMENTO INVOLONTARIO

In Cina i sussidi alle esportazioni, le fabbriche che sfruttano i lavoratori e gli standard ambientali inesistenti sono cose comuni, specialmente nelle industrie dell’acciaio e dell’energia solare. Invece, la manipolazione della valuta non è più un fenomeno così netto come lo era 10 anni fa.

Fino al 2005, la Cina ha agganciato la propria moneta al dollaro, ad un tasso di 8,27 yuan, nonostante le enormi esportazioni e gli enormi influssi di capitale legittimassero un tasso di cambio molto più alto. Invece è stato mantenuto stabile con l’acquisto delle security del Tesoro per un valore di 4 mila miliardi di dollari, creando quindi una domanda artificiale di dollari.

Dopo le pressioni americane, la Cina ha fatto salire lo yuan fino a un tasso di 6,05 yuan per dollaro agli inizi del 2014. Ma da allora, il tasso non è più stato davvero in mano al Dragone.

Dei problemi economici sistemici, oltre che la creazione di un credito bancario del valore di 35 mila miliardi di dollari e gli effetti della campagna anti corruzione del leader del regime Xi Jinping, hanno portato a massicce fuoriuscite di capitale, stimate a un valore di 1.200 – 1.500 miliardi di dollari a partire dall’inizio del 2014. Queste fuoriuscite di capitale erano maggiori del surplus commerciale e hanno determinato una pressione verso il basso sulla moneta cinese.

Ma invece di cogliere questa opportunità per far scendere la moneta e creare un vantaggio per gli esportatori, la Cina ha venduto mille miliardi di dollari in riserve di valuta estera allo scopo di mantenere lo yuan quasi stabile, dando un’impressione di solidità economica. Quindi, in realtà, negli ultimi anni la Cina ha manipolato la sua valuta facendola aumentare di valore, e non diminuire.

Questo tipo di manipolazione è andata avanti anche dopo le elezioni americane, quando in modo quasi proporzionale all’aumento del valore del dollaro rispetto allo yuan, i bond sono stati venduti in massa con caduta dei prezzi e aumento dei guadagni.

Forse i cinesi vogliono aspettare e vedere cosa propone Trump, prima di lasciare le redini della propria moneta. O magari vogliono flettere i muscoli, mostrando al neo presidente di poter creare il caos nel mercato dei buoni del Tesoro non appena lo vogliano.

Ma su questo Christopher Whalen, capo della ricerca presso la Kroll Bond Rating Agency di New York, afferma: «Non aspettatevi che sia la Cina a svendere i buoni del Tesoro. È un’idea diffusa e sbagliata. Il dollaro è l’unica moneta abbastanza grande da contenere le riserve cinesi».

Articolo in inglese: Trump and China: What Can He Actually Do?

Traduzione di Vincenzo Cassano

 
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