Come combatteranno il virus, quei Paesi che non hanno nemmeno l’acqua?

Di Venus Upadhayaya

Per rispondere alla pandemia Covid-19, i Paesi con carenza d’acqua devono affrontare sfide maggiori: le persone non si possono permettere di lavarsi le mani a intervalli regolari per ridurre il rischio di infezione, e i sistemi sanitari non hanno le forniture necessarie per curare i pazienti.

Da giovedì, nel mondo sono stati confermati oltre un milione di infetti e oltre 50 mila decessi legati al virus del Pcc (Partito Comunista Cinese), con un numero di casi provenienti dalla Cina ampiamente sottostimato. Lavare le mani con il sapone a intervalli regolari è la misura protettiva di base contro l’infezione, ma le varie situazioni di vita non lo permettono a tutti.

Secondo Water Aid, organizzazione benefica internazionale che opera in trentadue Paesi e lavora per purificare l’acqua, fornire servizi igienici affidabili e una buona igiene, solo il 19 per cento delle persone nel mondo può permettersi il lusso di lavarsi le mani con il sapone dopo aver usato il bagno, e una struttura sanitaria su sei non dispone di impianti per lavare le mani.

Mamata Dash, esperto che ha lavorato sulla crisi idrica in diversi Paesi dell’Asia, dell’Africa, dell’America Latina e del Pacifico, ha scritto a Epoch Times che ogni nazione ha una parte di popolazione vulnerabile, quando si tratta di approvvigionamento idrico: «Popolazione ad alta densità o meno, coloro che in tutte le aree geografiche vivono ai margini e sono vulnerabili, devono affrontare enormi sfide per mantenersi a galla in una situazione come questa».

Secondo il Participatory Slum Upgrading Program di UN-Habitat, un miliardo di persone – una su otto nel mondo – vive nelle baraccopoli: a questo si aggiungono i 100 milioni di senzatetto nel mondo, calcolati dalla Homeless World Cup Foundation.

Dash fa l’esempio di Nairobi. La città è una destinazione popolare per turisti e non, e molte persone provenienti dall’Africa centrale e orientale affollano i suoi ospedali per le cure, ma ha una disponibilità limitata di acqua: «Normalmente le persone (dotate di risorse) immagazzinano l’acqua per garantirsi nel tempo approvvigionamento idrico. Tuttavia, in una pandemia di questa portata, che richiede una maggiore quantità di acqua per il lavaggio delle mani, non si sa come la città sarà in grado di gestire il fabbisogno idrico aggiuntivo».

Inoltre, la capitale del Kenya è ora in isolamento parziale dalle nove di sera alle sette di mattina, ma diverrà totale se il numero dei casi positivi aumenterà: «La gente in molte parti dell’Africa deve affrontare la scarsità d’acqua in tempi normali e, molto spesso, deve pagarla per averne la quantità minima necessaria per un giorno. La povertà e la fame, moltiplicate per la scarsità di accesso ai bisogni più elementari come l’acqua, sono qualcosa con cui la gente sta già lottando, ed è inimmaginabile come sarà possibile avere accesso all’acqua necessaria per garantire la propria sicurezza contro il virus».

Le seria realtà della povertà e della migrazione

Amnesty International è preoccupata per la mancanza di misure protettive, in particolare per quanto riguarda il cibo e l’acqua per le persone in isolamento in varie parti dell’Asia meridionale e del Medio Oriente, e spiega che c’è una popolazione consistente di sfollati in Afghanistan, devastati dalla guerra, che vivono in campi sparsi in zone di difficile accesso e sono costretti a percorrere lunghe distanze per cercare cibo e acqua.

Biraj Patnaik, direttore di Amnesty International per l’Asia meridionale, il 26 marzo ha dichiarato: «Per le persone sfollate a causa dei conflitti, la distanza sociale non è un’opzione, l’assistenza sanitaria non è facilmente disponibile e i beni di prima necessità sono una lotta quotidiana. Gli Stati hanno l’obbligo non solo di assicurarsi di contrastare la crisi COVID-19, ma anche di far fronte alle loro particolari esigenze».

Nelle comunità in isolamento che devono affrontare la scarsità d’acqua, la gente ha già iniziato ad adeguarsi. A Nuova Delhi, in India, che è sotto completo isolamento fino al 14 aprile, un gruppo di giovani affronta regolarmente la scarsità d’acqua nella baraccopoli di Lal Gumbad, con una popolazione di 5.000 abitanti. Infatti, dopo l’isolamento, si sono barricati nella loro colonia e hanno creato due uscite, dove hanno allestito una postazione per il lavaggio delle mani, obbligando chiunque esca o entri nella colonia, a lavarsele, anche quando non c’è una regolare fornitura d’acqua in ogni casa.

Il trentunenne Sanjay Pradhan, leader del gruppo, in una telefonata ha spiegato a Epoch Times: «Abbiamo usato un normale distributore d’acqua come quello presente nelle case. Abbiamo contribuito con 20-50 rupie (24-61 centesimi) e raccolte altre 2.000 (24 euro) e le abbiamo usate per comprare saponi, glicerina e antisettico. Siamo poveri. Non abbiamo nessun altro modo per proteggerci».

Quasi dieci giorni dopo che l’India ha imposto il blocco nazionale di tre settimane per il contenimento dell’epidemia, i lavoratori della comunità sono preoccupati per la classe lavoratrice migrante bloccata in varie città, temendo che la fame e il caos possano uccidere più persone dell’infezione. La maggior parte degli appartenenti alla classe lavoratrice migrante è costituita da lavoratori a salario giornaliero, che migrano dai villaggi alle città in cerca di lavoro. Con le aziende che chiudono i battenti e nessuna tregua prevedibile, queste persone sono rimaste bloccate nelle città e molti hanno iniziato a camminare per lunghissime distanze fino a casa senza cibo o acqua. Dash lo descrive come «la più lunga camminata verso casa senza cibo né acqua».

Sunil Kumar Aledia da due decenni lavora con i senzatetto di Delhi e, attraverso la sua organizzazione, il Centro per lo sviluppo olistico, sostiene i poveri bloccati sulle strade a causa dell’isolamento della capitale. A Epoch Times ha raccontato di aver visto, in quasi dieci giorni di lavoro in strada, solo una volta singoli volontari e organizzazioni caritatevoli distribuire piccole dosi di acqua alle persone bloccate. L’acqua per lavare le mani è un privilegio, e il disinfettante lo è ancora di più; inoltre, quando la gente ha perso il lavoro e ha fretta di tornare nei villaggi, anche il distanziamento sociale è molto difficile.

Dash ha poi confermato che simili rapporti stanno arrivando anche da altre parti del mondo: «I Paesi dove i lavoratori migranti sono lasciati a piedi, per le chiusure complete o parziali, l’acqua rimane attualmente una risorsa preziosa per queste persone, come lo è per tutti gli altri. Con la crisi idrica globale e la sempre maggiore richiesta di disponibilità di acqua per garantire l’igiene delle mani, situazioni come questa non forniscono un quadro particolarmente promettente».

Allo stesso tempo, Amnesty International, preoccupata per i lavoratori migranti nei campi di lavoro in Medio Oriente, ha risposto ai rapporti sui lavoratori bloccati nell’area industriale del Qatar a Doha, nel completo isolamento dovuto alla pandemia, esortando il governo del Qatar ad assicurarsi che i lavoratori abbiano accesso all’assistenza sanitaria e alle cure preventive. Steve Cockburn, vicedirettore di Amnesty International per le questioni globali, in un comunicato del 20 marzo ha dichiarato che «i campi di accoglienza dei lavoratori sono notoriamente sovraffollati, e mancano di acqua e servizi igienici adeguati, il che li rende inevitabilmente più esposti al virus».

 

Articolo in inglese: As CCP Virus Rampages Worldwide, Countries Lacking Clean Water Face Challenges

 
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