Ungheria e Slovacchia sono stranamente determinate a continuare a importare petrolio russo, nonostante Bruxelles, Washington e vari analisti ritengano che l’infrastruttura già esistente e operativa permetta a entrambe di farne a meno.
Il primo ministro ungherese Viktor Orbán ha parlato al telefono con Donald Trump il 25 settembre. Successivamente, in un’intervista alla radio di Stato, Orbán ha dichiarato di aver spiegato a Trump che l’abbandono delle importazioni di energia russa rappresenterebbe un «disastro» economico per l’Ungheria: «Ho detto al presidente statunitense […] che se l’Ungheria venisse tagliata fuori dal petrolio e dal gas naturale russi, immediatamente […] le prestazioni economiche ungheresi calerebbero del 4 per cento» e «l’economia ungherese finirebbe in ginocchio». Ungheria e Stati Uniti, ha poi precisato Orbán, «sono nazioni sovrane, non c’è bisogno che una dei due accetti gli argomenti dell’altra. L’America ha i propri argomenti e interessi e l’Ungheria pure».
La Slovacchia ha la stessa posizione: «La coalizione di governo respinge la proposta imbecille della Commissione europea di interrompere i flussi di gas russo a partire dal 2028» ha dichiarato alla stampa il primo ministro slovacco Robert Fico.
Nel suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 23 settembre, il presidente degli Stati Uniti ha criticato i membri della Nato che continuano a acquistare energia russa “scattando una foto” che vale più di ogni analisi: «stanno finanziando la guerra contro se stessi», ha detto Trump, con un sorriso a metà strada tra il sarcastico e l’incredulo.
Secondo l’agenzia di stampa russa Interfax, la Russia ha fornito 4 milioni 780 mila tonnellate di petrolio all’Ungheria attraverso il ramo meridionale dell’oleodotto Druzhba nel 2024, e 956 mila tonnellate tra gennaio e febbraio 2025, a prospettare per l’anno in corso un aumento che dimostra poca volontà di distacco dalla Russia.
Per decenni, è un fatto noto, il sistema energetico europeo si è basato sulle forniture russe. L’Unione europea si è impegnata a eliminare completamente gli acquisti di energia russa entro il 2028, ma Washington spinge per un’accelerazione, sia per aprire alle esportazioni statunitensi che per riuscire, finalmente, a iniziare lo strangolamento dell’economia russa. Prima della guerra tra Ucraina e Russia (quando Trump, nel suo primo mandato, avvertiva del grave pericolo dal dipendere dagli idrocarburi russi e i delegati tedeschi all’Assemblea Generale del’Onu gli ridevano in faccia) Mosca forniva circa il 40 per cento delle importazioni di gas naturale dell’Ue, insieme a volumi significativi di greggio e carbone. Oleodotti come il Nord Stream 1 alimentavano la base industriale tedesca, mentre Stati come Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca diventavano a loro volta fortemente dipendenti dalle importazioni energetiche russe.
Sia l’Ungheria che la Slovacchia dipendono da due oleodotti per le importazioni di petrolio: il Druzhba e l’Adria. Il Druzhba è una delle reti più grandi al mondo per il trasporto di petrolio, che canalizza esclusivamente greggio russo via Ucraina. L’oleodotto Adria è invece gestito dall’azienda di Stato croata Janaf, e trasporta greggio non russo dal terminale petrolifero di Omišalj sulla costa adriatica. Il “russo” Druzhba rappresenta ancora oltre l’80 per cento delle importazioni totali di petrolio di Slovacchia e Ungheria; il restante 20 per cento arriva tramite l’oleodotto Adria. I flussi del Druzhba sono gestiti dal colosso Mol, società integrata ungherese di petrolio e gas, che opera anche nelle principali raffinerie a Százhalombatta (Ungheria) e Bratislava (Slovacchia). Il gruppo Mol ha contestato i risultati dei test condotti dalla Janaf, secondo cui l’oleodotto Adria potrebbe fornire abbastanza greggio da sostituire le importazioni russe. Ma l’operatore dell’oleodotto Adria ha a sua volta respinto le contestazioni, riaffermando che l’Adria ha senz’altro la capacità di erogare tutto il gas necessario ai due Stati. E che l’unico motivo per cui non succede è una decisione “politica”, non un vincolo tecnico-operativo.
Secondo Andy Mayer, esperto del settore energia sentito da Epoch Times Usa, «se i numeri sono corretti (Druzhba 5 milioni di tonnellate e Adria 14 milioni di tonnellate annue di capacità) i croati hanno ragione» a dire che tecnicamente l’oleodotto Adria da solo sarebbe sufficiente. Quindi, si potrebbe effettivamente chiudere il rubinetto del greggio russo trasportato dal Druzhba e dare un serio colpo (benché non mortale) all’economia russa. Rimarrebbe però vera l’obiezione di livello strategico dei governi ungherese e slovacco, che a quel punto avrebbero una sola fonte di approvvigionamento, con tutti i rischi del caso. D’altra parte, Ungheria e Slovacchia continuano a trovarsi nella stessa situazione in cui si trovava fino a tre anni e mezzo fa la Germania: dipendere in modo decisivo dall’oleodotto “russo”. E questa non può essere una situazione accettabile nel medio-lungo termine. A meno di non essere uno stretto alleato della Russia, naturalmente.
Un documento pubblicato a maggio da Clean Air and Energy insieme al Center for the Study of Democracy, dice che Ungheria e Slovacchia «non mostrano segni reali di distacco dal greggio russo, nonostante la decisione dell’Ue indichi che questo fosse lo scopo dell’esenzione» temporanea concessa da Bruxelles ai due Stati, e che eliminare gradualmente il petrolio russo, volendo, sarebbe «del tutto fattibile» per entrambi i Paesi, poiché l’oleodotto Adria è sufficiente. Il rapporto dice anche che Ungheria e Slovacchia «hanno aumentato significativamente le importazioni tramite l’oleodotto TurkStream, trasformando l’Ungheria in un hub strategico» per l’importazione del gas russo, minando «gli sforzi di diversificazione dell’Ue» e rafforzando «reti opache e politicamente controllate» che pongono i due Stati “dissidenti” sotto una forte influenza russa.
L’Unione Europea, in risposta alla pressione da Washington, ora appare determinata a accelerare il distacco dall’energia di Mosca: inizialmente aveva pianificato una eliminazione graduale entro il primo gennaio 2028, ma Donald Trump ha ripetutamente esortato l’Europa a anticipare. L’alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Kaja Kallas, ha dichiarato il 19 settembre che la nuova proposta accoglie l’istanza americana e mira «a accelerare l’eliminazione graduale del gas naturale liquefatto russo (da completare) entro il primo gennaio 2027».
Altro (grosso) problema nell’attuare la “tecnica strangolamento” dell’economia russa, è che l’Ue può approvare nuove sanzioni solo all’unanimità. Una norma di per sé forse “giusta”, ma che presume un’identità di vedute che in Europa non esiste. Ungheria e Slovacchia quindi possono porre il veto. D’altra parte, questo veto non farebbe che mettere ancora più in luce il fatto che l’alternativa – immediatamente praticabile – al petrolio russo esista, portando alla luce del sole il fatto che Ungheria e Slovacchia siano, di fatto, le uniche due nazioni Ue a mettersi dalla parte della Russia. Un aspetto non di poco conto.
Nel frattempo, esiste la possibilità che la guerra prenda la decisione al posto di entrambi i Paesi. In agosto, l’Ucraina ha colpito l’oleodotto Druzhba: «l’oleodotto petrolifero Druzhba è in pausa», ha scritto su X Robert “Madyar” Brovdi, comandante del reparto droni ucraini, il 18 agosto. Al momento, il ministro degli Esteri ungherese Péter Szijjártó aveva dichiarato: «l’esercito ucraino, con questi attacchi, non sta danneggiando principalmente la Russia, ma l’Ungheria e la Slovacchia, poiché questo oleodotto gioca un ruolo chiave nell’approvvigionamento energetico del nostro Paese».
Come ha osservato Donald Trump nel suo discorso alle Nazioni Unite – ammettendo di essere stato troppo ottimista sulla risoluzione del conflitto ucraino – in guerra non si sa mai cosa può succedere. La guerra è la manifestazione umana più imprevedibile (e devastante) in assoluto. Questo dovrebbe suggerire, in chi prende le decisioni, una condotta improntata alla saggezza, non al calcolo politico.