La luce dei buchi neri

I corpi celesti più luminosi nel cosmo sono in realtà invisibili a occhio nudo: i misteriosi blazar non emettono solo luce visibile a occhio nudo ma ogni tipo di radiazione, dalle onde radio ai raggi gamma. Se si potesse osservare l’universo con un paio di occhi a raggi gamma, si osserverebbe che le loro luci dominano il cielo notturno.

Attualmente, un team dell’Università di Boston sta cercando di capire come funzionano i blazar e da dove provenga la loro impressionante energia. Per il momento possono solo ipotizzare che vengano attivati dai ‘buchi neri supermassicci’, enormi regioni spaziotemporali che contengono una massa pari a centinaia di milioni di soli. Com’è noto, i buchi neri presentano una forza gravitazionale così forte, che nemmeno la luce vi può sfuggire; domandarsi come si attivino i blazar, gli oggetti più luminosi nel cosmo, è quindi una questione di notevole rilevanza scientifica.

Nel 1962, quando fu scoperto il primo blazar, gli astronomi erano perplessi: non sapevano cosa fosse e non avevano mai visto niente di simile. All’inizio, gli scienziati li osservavano nelle galassie antiche, situate a centinaia di milioni o addirittura miliardi di anni luce dalla Terra. Ma con il tempo e lo sviluppo della tecnologia, tra cui la messa in orbita del telescopio spaziale Hubble, alcuni indizi sono stati svelati e oggi gli astrofisici ne hanno catalogati a migliaia. Infatti ogni antica galassia, come la nostra Via Lattea, presenta al centro un buco nero supermassiccio che inghiotte materia pari a una massa di milioni di soli. Gli scienziati ritengono che in qualche modo i blazar siano attivati da questi enormi buchi neri. 

BUCHI NERI BEN ALIMENTATI

Quasi tutte le galassie contengono un buco nero supermassiccio, ma solo circa una su dieci è una galassia ‘attiva’, che irradia un’enorme quantità di energia. E meno di una galassia attiva su mille presenta un blazar.

Quello che differenzia queste galassie è la ‘dieta’ del buco nero. Com’è noto, i buchi neri divorano tutto ciò che si avvicina e, come dice l’astronomo Alan Marscher, quando è «ben nutrito», la materia lungo il suo cammino si solidifica, assumendo la forma di un disco a forma di ciambella che converge verso il buco nero. Poi il disco si riscalda per l’attrito, creando un bagliore e un tremolio nel campo della luce ultravioletta e visibile. Questo spiega in parte il motivo per il quale solo alcune galassie sono attive.

Ma per trasformare una normale galassia attiva in un blazar in grado di emettere raggi gamma ad alta energia e raggi X, sembra che debba verificarsi qualche altro evento. Gli astronomi credono che la risposta sia un getto: un fascio composto da particelle cariche, campi magnetici e radiazioni che vengono emesse dalla parte superiore e inferiore del disco rotante. «Il buco nero risucchia quasi tutto nel suo ambiente, ma in quel momento crea un caos tale che, in qualche modo, i getti vengono sparati fuori», ha spiegato Alan Marscher, professore di astronomia presso l’Institute for Astrophysical Research dell’Università di Boston. Se uno di questi getti è nella direzione della Terra, i telescopi ricevono il blazar. 

GETTI AD ALTA VELOCITÀ 

Quando gli elettroni vicino al buco nero incontrano il forte campo magnetico all’interno del getto, avviene un’emissione ad ampio spettro di radiazione, che va dalle onde radio a bassa frequenza fino ai raggi X ad alta energia. Nel frattempo, gli elettroni possono anche scontrarsi con i fotoni (le particelle che compongono la luce) e fornire energia extra per emettere raggi gamma.

A questo punto viene da chiedersi che cosa provochi esattamente una tale accelerazione degli elettroni. Gli astrofisici stanno ancora discutendo, ma in molti ritengono che gli elettroni subiscano una torsione in un campo magnetico a forma di cavatappi, che li spara fuori a velocità molto elevate.
Marscher lo compara all’effetto di ripulitura di una tubazione con uno stura lavandini: «Se continua a girarci attorno con un movimento rotatorio, poi spingerà in avanti – chiarisce Marscher – Qualora la rotazione del buco nero sia in grado di avvolgere sufficientemente il campo magnetico, allora questo permetterà l’emissione dei getti a una velocità di poco inferiore a quella della luce».
Se questa ipotesi è corretta, il tortuoso campo magnetico dovrebbe lasciare un’impronta caratteristica sulla luce che esce dal getto, chiamata polarizzazione. Ma per isolare l’impronta, cosa non facile, Marscher e colleghi hanno dovuto aspettare che un blazar emettesse un brillamento (un’emissione concentrata temporanea) per tracciare la forma del campo magnetico.

Questa ricerca di un segnale di polarizzazione è iniziata nel 2004, e l’anno successivo il team ha fatto centro: mentre stavano osservando il percorso di un potente blazar che emetteva brillamenti (chiamato BL Lacertae), sono riusciti a catturare la polarizzazione all’interno del bagliore dopo un giro e mezzo di rotazione; in questo modo gli astronomi hanno tracciato esattamente la forma a spirale, come avevano previsto. I risultati sono stati poi pubblicati su Nature nel 2008.

Brillamenti come questo rappresentano «la natura che compie la sua azione più estrema», ha spiegato Marscher. Ma i brillamenti sono rari e catturarli richiede una lunga osservazione con il telescopio. Per ovviare questo problema e disporre di una copertura quasi continua su più di tre dozzine di blazar, il team ha stipulato una partnership con il Lowell Observatory, che possiede il telescopio Perkins – 1,8 metri di lunghezza, nei pressi di Falgstaff in Arizona; qui, Svetlana Jorstad, ricercatrice senior che lavora con Marscher, trascorre circa una settimana ogni mese alla ricerca di queste emissioni.

Quando scoppia un brillamento, Jorstad avvisa subito i responsabili del satellite Swift della Nasa (perché può essere puntato rapidamente verso la sorgente e catturare i raggi X e ultravioletti) e consulta i dati pubblici del Fermi Gamma-ray Space Telescope. Scrutando le differenze di forma e intervallo del brillamento a diverse lunghezze d’onda, Jorstad, Marscher e colleghi ricavano le leggi fisiche che regolano l’emissione del brillamento.

Marscher e Jorstad si avvalgono anche di una rete di radiotelescopi, chiamata Very Long Baseline Array (Vlba), che permette loro di ingrandire il brillamento e scattare foto per comprendere come si muove e come cambia. Poiché i telescopi che compongono il Vlba si trovano in angoli opposti della Terra, questa rete è capace di identificare e spiegare piccoli dettagli, con una capacità circa mille volte superiore a quella del telescopio spaziale Hubble.
Infatti, anche se i getti sono enormi – in alcuni casi svariati anni luce – risultano così lontani dalla Terra che il Vlba è l’unico strumento al mondo che può effettivamente osservare i punti luminosi che si muovono attraverso i getti (tecnicamente parlando si chiamano ‘blob’).

Attualmente, il team sta cercando di comprendere l’origine dei brillamenti a raggi gamma; secondo le ipotesi, la sorgente è molto vicina al buco nero che si trova al centro del blazar. Ma, con lo stupore di tutti, il team ha scoperto che una parte importante dei raggi gamma proviene da un punto lontano anni luce. Come faccia una tale esplosione di energia a verificarsi così lontano dal motore centrale del blazar, rimane un mistero.
Per questo motivo, il team sta testando una varietà d’idee utilizzando modelli al computer, sperando di metterli presto alla prova con il Discovery Channel Telescope, un telescopio ottico da 4,3 metri nel Lowell Observatory.       

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Questo articolo è stato originariamente pubblicato dalla Boston University. Ripubblicato via Futurity.org sotto Licenza Creative Commons 4.0.
 


Articolo in inglese: ‘Bright ‘Blazars’ Fill the Night Sky, but We Can’t See Them

 
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