Referendum costituzionale, gli argomenti del no

In vista del referendum costituzionale del 4 dicembre, Epoch Times ha intervistato il dott. Roberto Toniatti, professore di diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Trento. Toniatti è tra i firmatari di un documento critico nei confronti della riforma costituzionale.

Professor Toniatti, quali sono gli aspetti della riforma che ritiene più problematici?

Nei suoi lineamenti di fondo, a mio giudizio, è  da valutare negativamente una revisione della Costituzione così ampia e radicale rispetto al testo vigente, posta in essere da un Parlamento eletto con una legge elettorale giudicata illegittima dalla Corte costituzionale, con espressioni inequivoche proprio sotto il profilo della democraticità della attuale rappresentanza parlamentare.

Inoltre, l’eterogeneità del quesito è tale da non consentire al cittadino di esprimersi consapevolmente sui singoli contenuti della revisione sottoposta al referendum confermativo. Da ultimo –  ma con portata più generale – occorre riflettere sul fatto che, fatta eccezione per la riforma del 2012 che ha introdotto il requisito dell’equilibrio di bilancio nel clima di emergenza finanziaria che si era creato, le ultime tre revisioni della Costituzione sono state il risultato di deliberazioni di maggioranza con conseguente ricorso al referendum confermativo (2001, 2006, 2016), segno evidente dell’incapacità del sistema político di individuare soluzioni condivise e aggreganti.

Nel merito, la criticità maggiore risiede, a mio giudizio, proprio nel nucleo centrale del progetto, ossia nel combinato disposto della marcata ricentralizzazione statale delle competenze e della mancata configurazione del Senato quale Camera seriamente  e autenticamente rappresentativa degli interessi regionali. Non vedo proprio come possa reggere il presupposto stesso di questa operazione restauratrice, ossia che lo Stato non sia il baricentro dell’inefficienza, del malgoverno, delle rendite di posizione, della corruzione. La revisione del 2001 si sarebbe potuta razionalizzare con ragionevolezza ed equilibrio, non con l’accetta.

La riforma costituzionale permette di superare il bicameralismo perfetto, mantenendo allo stesso tempo il Senato come organo di controllo, che può fornire pareri in modo da evitare l’approvazione troppo precipitosa di alcune leggi. In più il Senato avrebbe la funzione di rappresentare – anche se in maniera molto diluita – gli interessi delle regioni. Cosa non la convince di questa soluzione?

In primo luogo, il Senato non rappresenta gli interessi delle regioni: l’elezione con metodo proporzionale dei consiglieri-senatori e dei sindaci-senatori e il divieto del mandato imperativo fanno sì che nel Senato si replichi piuttosto il sistema partitico regionale, caratterizzato proprio dalla diversità di identificazione dell’interesse regionale, che continuerà ad essere rappresentato dal presidente e dagli assessori, ad esempio in seno alla Conferenza Stato-regioni (che non viene costituzionalizzata e continuerà ad avere un ruolo di fatto rilevante ma solo consultivo e non vincolante). Inoltre, del Senato farebbero parte gli ex presidenti della Repubblica, che per definizione rappresentano l’interesse nazionale unitario, e i senatori nominati per altissimi meriti, che però con gli interessi regionali non c’entrano nulla. Inoltre, il doppio incarico rappresenta la mortificazione e la de-professionalizzazione di entrambe le funzioni: abbiamo bisogno di migliore política e non di demagogia.

Anche l’abolizione del bicameralismo perfetto – obiettivo di per sé condivisibile – è stata disciplinata in modo incongruo, confuso e pasticciato. Ai fini dell’esercizio della funzione legislativa, il bicameralismo continua ad essere paritario per 21 fra categorie di leggi e materie per le quali il progetto di revisione prescrive la legge bicamerale (senza alcuna disciplina che possa evitare il ripetersi della navetta, se questo fosse davvero un problema). Per il resto della legislazione, il bicameralismo perfetto rimane allo stato virtuale, in quanto il Senato può sempre intervenire su ogni altro progetto di legge; l’unica modifica sarebbe che, nonostante l’intervento critico del Senato, la Camera potrebbe deliberare in modo definitivo: tre letture anziché quattro, questa è la grande reforma.

Il Senato, inoltre, è titolare di troppe competenze, che sono o del tutto oscure (come il “raccordo” fra le istituzioni e addirittura con l’Unione europea) o altamente tecniche (l’impatto sui territorio delle politiche pubbliche e dell’Unione europea), che i senatori a mezzo servizio non potranno minimamente esercitare e che dunque veranno affidate ai servizi parlamentari, con i relativi costi di personale altamente qualificato e con il pericolo di incrementare il rilievo político-istituzionale di una nuova categoría di tecnocrati.

Secondo lei, con questa riforma, il governo diventerebbe più forte, a discapito del Parlamento? 

I poteri del Governo non vengono formalmente investiti dal progetto di revisione, ma in prospettiva vale il principio dei vasi comunicanti: viene diminuita la pluralità dei poli istituzionali – ad esempio le regioni, la cui compressione funzionale non viene certo compensata dal Senato, come già precisato – e il Governo, forte dell’investitura fiduciaria della Camera e dunque quale comitato direttivo della maggioranza parlamentare, si conferma come l’esclusivo detentore della direzione politica. L’unico fattore di un possibile riequilibrio rimane l’Unione Europea.

Ritiene che il passaggio di certe competenze dalle regioni allo Stato sia problematico? Perché?

In primo luogo, lo Stato non ha certo espresso un rendimento istituzionale apprezzabile (si pensi ai forti tagli di risorse agli enti locali in questi anni di crisi e alla consistenza irrisoria della spending review degli apparati ministeriali). Inoltre, è infondato ritenere che l’uniformità  indifferenziata delle discipline normative e delle politiche pubbliche sia l’assetto preferibile per la varietà degli interessi territoriali in Italia. Di certo non si può non ammettere che le regioni avrebbero potuto fare di più e di meglio dal 2001 in avanti ma si deve anche riconoscere che la revisione del 2001 non è mai stata davvero metabolizzata dal legislatore statale, né dagli apparati ministeriali, né dalla Corte costituzionale né in fondo dalle stesse regioni. Le potenzialità della revisione del 2001 dovrebbero ancora avere l’occasione  di manifestarsi.

Cosa ne pensa dell’esame preventivo delle leggi elettorali, da parte della Corte Costituzionale?

Mi sembra una pessima innovazione: si tratta di un esame preventivo che espande l’area del controllo astratto rispetto al controllo concreto, che non esclude ulteriori occasioni di controllo concreto senza pertanto contribuire alla certezza del diritto, che accentua il pericolo di una politicizzazione della Corte.

Ci sono degli elementi della riforma che invece la convincono? 

Pochissimi: l’abolizione del Cnel e la previsione di margini per un regionalismo differenziato in favore delle regioni ordinarie (art. 116, terzo comma), con la speranza che si concretizzino (a differenza del passato) le occasioni per una sua effettiva realizzazione.

 

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