Il desiderio di potere che si nasconde dietro le preoccupazioni per la salute e il clima

C’è una minaccia di strisciante totalitarismo nelle società occidentali, che proviene dagli attivisti per la salute e il clima. Affermazione strana? Beh, del resto chi (eccetto dei mostri insensibili) potrebbe essere contrario al salvare vite umane o al salvare il pianeta da future catastrofi? E spesso questi due filoni dell’entusiasmo redentore vanno di pari passo: dopotutto, il degrado ambientale difficilmente fa del bene alle vite.

Tuttavia, poiché quasi tutte le attività umane hanno conseguenze sulla salute o sull’ambiente, specialmente conseguenze negative, ne consegue che coloro che vogliono preservare la salute umana o l’ambiente, o entrambi, hanno una giustificazione infinita per interferire nella vita delle persone.

A questo si aggiunge che, oggigiorno, gran parte della ricerca medica pubblicata su riviste mediche generali come il Lancet o il New England Journal of Medicine è epidemiologica piuttosto che sperimentale. Trova associazioni tra il fattore A (diciamo, per esempio, il consumo di banane) e la malattia X (diciamo, il morbo di Alzheimer).

Una volta trovata un’associazione che è improbabile sia nata per caso (improbabile, ma non impossibile), viene avanzata un’ipotesi sul perché il consumo di banane dovrebbe contribuire allo sviluppo del morbo di Alzheimer. In poco tempo, l’associazione statistica e la sua presunta spiegazione trapelano sulla stampa o sui social media e la gente inizia ad avere paura delle banane. I più entusiasti e meno scettici iniziano a chiedere interventi contro le banane: propaganda anti-banana, tasse extra sulle banane, niente banane in vendita entro un centinaio di metri da qualsiasi luogo ci possa essere un bambino, e così via.

E, naturalmente, una riduzione della domanda di banane aiuterà quei Paesi tropicali, gran parte dei quali sono dediti alla monocoltura di banane, degradante per l’ambiente: le repubbliche delle banane non si chiamano repubbliche delle banane per niente.

Spesso nella letteratura medica le associazioni statistiche sono deboli: qualcuno che consuma A, ha 1,2 volte più probabilità di sviluppare la malattia X rispetto a qualcuno che non lo fa. Questo è descritto come un aumento del rischio statisticamente significativo, ma non è significativo in nessun altro senso umanamente importante, specialmente quando il rischio iniziale di contrarre la malattia è comunque molto basso. E avvertimenti relativi a questo fatto, spesso (anzi, di solito), mancano non solo nella letteratura scientifica stessa, ma anche nei resoconti della stampa, letti poi dal grande pubblico.

Non di rado, quindi, vengono proposti cambiamenti politici radicali sulla base di prove deboli che non solo probabilmente saranno sostituite nel tempo da nuove ricerche (sebbene le raccomandazioni in merito all’alimentazione, per la maggior parte, non siano molto diverse da quelle raccomandate da medici come il dott. Cheyne nella prima metà del XVIII secolo), ma non tengono neppure conto del fatto che la salute, pur essendo un fattore importante, non è l’unico fattore fondamentale, e talvolta deve essere bilanciata con altri fattori.

Ad esempio, sarebbe facile ridurre a zero il tasso d’incidenti stradali mortali vietando a tutti di uscire di casa, ma questo potrebbe non essere un divieto saggio. Oppure, lo sport è una delle cause più frequenti d’infortunio nel mondo occidentale, ma è giustamente incoraggiato a causa dei suoi altri benefici.

Le buone intenzioni sono spesso una cortina di fumo

Le presunte buone intenzioni sono spesso una cortina di fumo che nasconde un desiderio quasi sadico di esercitare il potere, o almeno l’influenza. Sonia Sodha, scrittrice di editoriali per l’influente quotidiano britannico The Observer ha suggerito, ad esempio, che la carne dovrebbe essere razionata. E la sua idea non è legata a una carenza di carne, ma al fatto che il costo ambientale della sua produzione sia troppo elevato.

La Sodha però si oppone a una tassa sulla carne per abbassare i consumi perché l’aumento del prezzo colpirebbe i poveri più dei ricchi. L’unica altra soluzione sarebbe quindi razionarla, in modo che tutti abbiano accesso a una quantità uguale, ma piccola.

L’autrice è abbastanza onesta da ammettere di essere un’ipocrita, nel senso che, pur essendo fermamente convinta del fatto che il consumo di carne debba diminuire per salvare il pianeta, lei continuerà a mangiarla nelle quantità abituali finché sarà a sua disposizione. Indica inoltre che sarebbe necessario un dittatore, per indurre le persone a fare la cosa giusta.

La cosa davvero sorprendente del suo articolo è che non considera il tipo di apparato che sarebbe necessario per razionare una merce come la carne. Secondo lei qualcuno dovrebbe stabilire la razione e molte persone dovrebbero imporla.

Evidentemente, non ha mai sentito parlare dei mercati neri; né sembra essere consapevole del fatto che, dove una burocrazia assegna o distribuisce beni e servizi, specialmente quando scarseggiano, i privilegiati fioriscono, piuttosto che appassire (leggasi corruzione).

Né riconosce che la carne è lungi dall’essere l’unica merce con un alto costo ambientale e che l’argomentazione a favore del razionamento della carne potrebbe essere utilizzata per il razionamento di molte, se non della maggior parte o addirittura di tutte, le merci.

Ciò che l’autrice propone, quindi, implicitamente o esplicitamente, è una sorta di comunismo, in cui una classe amministrativa sotto la direzione di una classe ancora più piccola d’individui illuminati e informati, distribuisce alla popolazione ciò che pensa debba avere; per il suo bene supremo, ovviamente.

L’autrice è certamente abbastanza intelligente da rendersi conto che questa è l’implicazione o il corollario di ciò che scrive (e, per renderle giustizia, lo scrive molto chiaramente), quindi si deve concludere che una società in cui molto, se non tutto, è razionato in primo luogo in nome della protezione dell’ambiente e in secondo luogo, in nome della giustizia sociale, è quella che le farebbe piacere almeno contemplare in astratto, se non addirittura vivere.

Che questo schema drastico e di vasta portata si basi su prove che sono di per sé lontane dall’essere solide o indiscutibili, probabilmente non la preoccuperebbe molto, perché il risultato finale (il risultato finale teorico, cioè non il risultato finale nella pratica) è quello che desidera a priori: in altre parole, prima la politica e poi le prove per giustificarla.

Si dà il caso che sempre più giovani nei Paesi occidentali vengano convinti dal vegetarianismo. Tutto sommato potrebbe essere una buona cosa, ma nessun gigantesco apparato statale era necessario per ottenere questo risultato. È un cambiamento che è sgorgato dal basso, non è imposto dall’alto e non richiede mezzi corruttivi di coercizione per essere applicato.

 

L’autore, Theodore Dalrymple, è un medico in pensione. È un collaboratore del City Journal di New York e autore di 30 libri, tra cui «Life at the Bottom». Il suo ultimo libro è «Embargo and Other Stories».

Le opinioni espresse in quest’articolo sono quelle dell’autore e non riflettono necessariamente quelle di Epoch Times.

 

Articolo in inglese: The Desire for Power Hiding Behind Health and Climate Concerns

 
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