La fine dello ‘shopping’ cinese

Gli ambiziosi progetti della Cina riguardanti gli investimenti di capitale all’estero – che hanno superato il valore di mille miliardi di dollari alla fine di settembre – stanno incontrando una grave battuta d’arresto.

Secondo una recente inchiesta, la Banca Cinese per lo Sviluppo (CDB) e il Banco Export-Import della Cina, i due istituti di riferimento per le operazioni finanziarie internazionali, si trovano a dover fronteggiare gravi rischi politici, sociali e ambientali.
L’indagine, nata della collaborazione tra i membri dell’Autorità per l’Iniziativa Economica Globale (GEGI) e l’Accademia Cinese delle Scienze Sociali, s’intitola Alimentare la crescita e finanziare il rischio: i vantaggi e i pericoli della finanza dello sviluppo cinese nel settore dell’energia globale. Ne risulta che tra il 2007 e il 2014, le due banche abbiano prestato 118 miliardi di dollari a progetti energetici oltremare, ovvero l’equivalente del capitale investito complessivamente nello stesso settore dalla Banca Mondiale, dalla Banca Asiatica per lo Sviluppo, la Banca Inter-Americana per lo sviluppo, e la Banca Africana per lo Sviluppo.

Viene anche citato un documento dell’Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo (OECD) riguardante la classificazione del rischio negli Stati membri. La media delle 20 nazioni più importanti beneficiarie dei progetti della Banca Mondiale è 5,25 (un valore di 1 sta per un livello di rischio basso, 10 per uno alto), molto più bassa del 6,4 assegnato alle 13 finanziate dalla Cina.

Secondo gli standard dell’OECD, 6 dei 10 Paesi più influenti che hanno ricevuto aiuti economici cinesi tra il 2013 e il 2015 sono considerabili come ‘molto rischiosi’. Al contrario, solo 2 tra quelli assistiti dalla Banca Mondiale nel periodo 2011-2015 rientrano nella stessa categoria. Questo slancio nel concedere prestiti all’estero ha quindi esposto le banche cinesi al potenziale rischio d’insolvenza da parte di molti paesi debitori.

IL DECLINO DEGLI INVESTIMENTI INTERNAZIONALI

Anche i media cinesi hanno riportato l’attenzione sul tasso di fallimento delle imprese all’estero, in particolare nel settore minerario, dove ha superato il 95 per cento. Con il declino delle condizioni economiche globali e degli ambienti d’investimento, la Cina potrebbe trovarsi costretta a frenare questa politica di ‘spese pazze’ nei prestiti e nei finanziamenti.

Secondo un’analisi dell’Oxford Economics, Venezuela, Iraq, Mongolia, Angola, Zambia, Nigeria, Gabon, Algeria e Azerbaijan devono rivedere completamente le loro irregolarità fiscali per ridurre la dipendenza da beni primari e risanare le finanze pubbliche.

Energia e minerali costituiscono circa i ¾ delle esportazioni di questi Paesi e la Cina ha stretto accordi commerciali e fornito supporto finanziario a ciascuno di essi. Emblematico è il caso del petrolio: l’abbassamento del valore attuale a 50 dollari al barile danneggia quei debitori che tentano di convertirlo in saldo parziale per i prestiti. Alcuni finanziamenti hanno perso redditività, e la Cina ha dovuto rinegoziarne i termini con il Chad, il Ghana, l’Angola e altri Paesi.

Nel frattempo l’economia del Venezuela, che nel settore export si basa per il 96 per cento sulla fornitura di petrolio grezzo, è collassata. Un’oscillazione negativa di un 1 dollaro al barile riduce di 700 milioni di dollari l’introito nazionale. Dal 2007 il Paese ha ricevuto 65 miliardi di dollari in prestito dalla Cina per lo sviluppo di raffinerie, miniere d’oro e ferrovie. Ma quando, nel maggio 2016, il Venezuela ha chiesto una proroga sul pagamento della rata principale (tra i 20 e i 24 miliardi di dollari) e ha saldato solo gli interessi, la Cina ha cominciato a interrogare la Cdb sui criteri d’investimento all’estero e sul perché non fosse stata accertata la storia finanziaria del Venezuela al momento del prestito.

Alcuni commentatori hanno dichiarato che già 10 anni prima, all’epoca degli accordi diplomatici tra i leader cinesi e Hugo Chávez, il Venezuela si trovava in una situazione d’inadempimento nei confronti dei creditori esteri, e usciva da ben quattro ristrutturazioni del debito. Oggi, il tasso d’inflazione del paese è dell’800 per cento. Alcuni tra i progetti finanziati con capitale cinese si trovano in uno stato d’incuria o abbandono, compresa una ferrovia completata solo a metà. La scarsità di fondi ha impedito a Caracas di pagare gli imprenditori che si occupavano di mantenere il flusso di petrolio e ora Pechino è doppiamente colpita dal mancato risarcimento e dal declino della fornitura.

LE RISERVE DI VALUTA ESTERA SI ASSOTTIGLIANO

La Cina possiede la più grande riserva di valuta estera nel mondo, nonostante il calo dai 3 mila 990 miliardi di dollari del giugno 2014 ai 3 mila 170 miliardi del settembre 2016. Ma queste ricchezze si stanno esaurendo molto velocemente: l’instabile situazione politica ed economica interna ha reso quotidiana la fuoriuscita di enormi capitali dal Paese. Nonostante i controlli capillari, il governo non riesce a invertire la tendenza. Negli anni passati la riserva cinese di valuta estera è scesa velocemente per i deflussi di denaro, gli investimenti internazionali, e lo stabilizzarsi dei tassi di cambio. Dei tremila miliardi rimasti, circa mille sono costituiti dal debito degli Stati Uniti, e gli altri sono vincolati a specifiche funzioni (non sono ‘fermi in una banca’ come sostenuto da alcuni).

Il mantenimento di questi tremila miliardi ha richiesto un notevole sforzo da parte del governo cinese. Secondo il Nihon Keizai Shimbum (quotidiano economico giapponese), le formalità richieste a un’azienda giapponese per ritirarsi dalla Cina sono molto complesse, perché risultato di una politica che mira a rafforzare i controlli sugli scambi esteri. Quando la Federazione per gli Affari Giapponese ha condotto una serie di visite commerciali in Cina nel settembre di quest’anno, ha dovuto richiedere permessi speciali per gestire le procedure di ritiro di alcune aziende straniere dal Paese. E quando la Deutsche Bank ha venduto quote della Huaxia Bank per 3 mila 900 miliardi di dollari, le autorità cinesi hanno preteso che il trasferimento non avvenisse mediante un’unica transazione.

Il mito di una Cina ‘generosa’ verso i Paesi in via di sviluppo sta dunque finendo, e non per scelta del governo, ma come risultato dei cambiamenti domestici e internazionali.

 

He Qinglian è una stimata economista cinese, autrice de Le trappole della Cina, libro che tratta degli episodi di corruzione nella riforma economica degli anni 90, e de La nebbia della censura: il controllo dei media in Cina che analizza la manipolazione e la censura della stampa. Attualmente risiede negli Stati Uniti e scrive degli aspetti sociali ed economici della Cina.

Articolo in inglese: Why China’s Era as a Global ‘Big Spender’ Is Coming to an End

Traduzione di Alessio Penna

 
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