Ennesima strage negli Usa. La riflessione psicologica

In America si è verificato l’ennesimo caso di strage. Il primo ottobre un giovane è entrato nell’Umpqua college a Roseburg (Oregon), uccidendo almeno 8 studenti e un professore. I principali obiettivi erano tutte le persone di religione cristiana che trovava sul suo cammino.

Non è la prima volta che vediamo televisione e giornali riportare questo tipo di violenza gratuita. Ma in questo caso si può intravedere una forma discriminatoria già incontrata in Africa e nel Medio Oriente. Una volta accertatosi che il soggetto davanti a sé fosse cristiano, Chris Harper Mercer avrebbe detto: «ora andrai a vedere Dio in appena un secondo», secondo una testimone. Quali possono essere le cause di un tale gesto?

Può essere che «alla base vi sia un carattere narcisistico di potenza, oltre che di assenza del valore stesso della vita», analizza Stefano Pischiutta, psicologo e psicoterapeuta a Roma. «Penso che una persona abbia un grande senso di potenza nel pensare: “posso uccidere queste persone”. È come se si potesse decidere della vita e della morte».

Certamente, per alcuni, è da prendere in considerazione il fatto che nel caso americano le armi siano più facili da reperire, e vi sia quindi più facilità di passare all’atto. Ma l’arma da sola non uccide nessuno, è la mano che la impugna a cambiare le carte in gioco. Quindi, nonostante una società possa incentivare un certo tipo di visione della vita, in questo caso magari vicina all’idea di sicurezza, di edonismo e di individualismo e protagonismo assoluto, è il vissuto della persona, il suo discorso interiore da cui scaturisce la violenza.

Sembra quasi necessario dire questo, dal momento che ora in «molti tendono a separare la notizia dal contesto, e le cose vengono ingigantite». Ciò non toglie che un’azione del genere rispecchi una visione distorta rispetto a ciò che è bene e ciò che è male: in questo caso, «se sei cristiano sei il “male”, se sei altro non ti sparo. Già qui vedo una separazione all’interno della persona, tipica della fase di acting out [ovvero sia passare all’azione senza il controllo della coscienza, fenomeno sociopatico, ndr]».

La religione ovviamente è soltanto una delle occasioni fornite dalla società, «ma si può parlare anche di altre cose. Un esempio è il tifo calcistico». La violenza che si manifesta fuori dagli stadi rispecchia «la separazione di un aspetto ‘ombra’» all’interno dell’individuo.  Quel qualcosa che diventa fonte di reazione condizionata. Poi, «se ci sono condizioni patologiche», allora l’espressione totale di quello che è il vissuto interno della persona è ancora più evidente.

Uccidere deliberatamente un proprio coetaneo può essere sintomo di un «grande vuoto esistenziale e spirituale». Questo si mostra attraverso la violenza, che diventa quasi una difesa nei confronti di un ‘nemico’, che non si comprende o non si accetta. «La lotta intrapsichica tra il bene e il male, laddove i due poli non siano integrabili all’interno della psiche, fa sì che il male, non visto – e, quando visto, non accettato – si proietti al di fuori, solitamente su una persona o situazione che meglio rappresenta e impersonifica quel male».

 
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