Ecco gli ordini inflessibili dati ai giornalisti cinesi a Wuhan

Di Eva Fu

Fin dall’inizio della diffusione del virus del Pcc, il regime cinese ha tenuto sotto stretto controllo i giornalisti dei media statali, assicurandosi che le loro notizie fossero in sincronia con i comunicati ufficiali. Lo ha riferito a Epoch Times Zhang Zhenyu, un ex reporter di Ifeng, un giornale pro-Pechino con sede a Hong Kong.

Zhang ha rivelato le istruzioni dettagliate delle autorità cinesi inviate a circa 300 giornalisti dei media statali, che a gennaio sono stati inviati nell’epicentro dell’epidemia a Wuhan. Le rivelazioni si basano sulle sue fonti che lavorano in Cina nel settore; stando ad esse, la priorità assoluta di ogni giornalista sul campo era di non riportare alcuna notizia negativa. 

Squadra di propaganda: ordini inflessibili

Zhang spiega che, in tutta la Cina, tutte le principali agenzie di stampa statali hanno inviato i loro giornalisti a Wuhan, i quali dovranno rimanerci fino alla fine dell’epidemia. La natura del loro ruolo è così chiara che internamente i giornalisti si definiscono «la squadra della propaganda». Il regime ha inoltre stabilito delle rigide regole a cui loro devono attenersi, nel rispetto delle linee guida di Xinhua, China News Service e del People’s Daily, le tre principali testate giornalistiche cinesi gestite dallo Stato.

Ai giornalisti non è permesso lasciare il gruppo o rivelare la loro posizione all’esterno, e non sono autorizzati ad agire a propria discrezione. I loro programmi conterranno interviste prestabilite, mentre le foto di ogni reportage sono attentamente vagliate dalle autorità per l’approvazione: «Il cosiddetto corpo della stampa è una corda legata al collo di ogni giornalista […] Devi recarti ovunque ti venga chiesto di andare. Loro mangiano e vivono insieme, e agiscono di concerto, controllandosi a vicenda: è fondamentalmente il dilemma del prigioniero».

Normalmente in Cina, se un giornalista segue la linea politica sbagliata, è costretto a scrivere un’autocritica e di solito la società per cui lavora agisce da cuscinetto per proteggerlo. Tuttavia, raggruppando insieme i reporter, il regime elimina di fatto questo strato protettivo e può punire direttamente chiunque abbia commesso un errore di percorso. «In tali circostanze, in passato saremmo scappati, ma in un posto come Wuhan, non si può scappare neppure se si vuole. In parole povere, sono diventati delle pedine».

Le direttive di Pechino

Citando le sue connessioni in Cina, Zhang ha spiegato che l’Amministrazione del Cyberspazio di Pechino, la principale agenzia di censura di internet del regime, ha emesso varie linee guida per i giornalisti.

La prima è quella di spostare l’attenzione dalla gravità dell’epidemia e sottolineare come la città stia tornando allo stato di normalità. Poi, per evitare il panico, i nuovi casi non devono essere segnalati. Al contrario, devono aumentare le notizie sul peggioramento della pandemia all’estero, puntualizzando come gli interventi attuati dal regime siano superiori a quelli dei sistemi democratici esteri.

Nondimeno, è stato messo in atto un «sistema di monitoraggio» per filtrare i contenuti sensibili sull’epidemia in internet. Un documento recentemente trapelato dalla provincia dell’Hubei mostra che i funzionari hanno assunto circa 1.600 censori per rimuovere in tempo reale qualsiasi commento critico online.

Prima del loro viaggio a Wuhan, i giornalisti erano stati avvertiti di non violare le direttive, poiché qualsiasi problema derivante dai loro errori sarebbe stato considerato una questione di sicurezza nazionale. Quindi, consapevoli di avere i telefoni monitorati, non hanno osato discutere del loro lavoro nemmeno con la famiglia.

Controllo capillare della trama, dall’inizio alla fine

Zhang spiega che, dopo il fallimento dell’insabbiamento iniziale e vedendo che la spirale dell’epidemia stava andando fuori controllo, il 23 gennaio il regime si è deciso a chiudere le città, una misura drastica che ha scatenato l’indignazione dell’opinione pubblica. Di conseguenza, i due obiettivi del Partito consistevano allora nel deviare la responsabilità e trasformare l’evento dell’epidemia in un’opportunità per glorificarsi.

Ad esempio, il Beijing News, un media gestito dallo Stato, ha ricevuto un «severo avvertimento» per aver leggermente deviato dai punti ufficiali del regime nel raccontare della velocità con cui sono stati prefabbricati gli ospedali d’emergenza: un altro argomento scelto e messo in evidenza dalle autorità.

«Il Partito non risolve il problema, ma cerca piuttosto di sbarazzarsi di coloro che hanno sollevato le questioni: questo è dettato dal suo sistema; risolvere il problema significa controllare l’opinione pubblica».

Il regime ha anche elogiato i giornalisti dei media statali per la loro copertura dell’epidemia.
Liao Jun, giornalista dei media statali Xinhua, oltre che essere stata tra i primi a nascondere l’ammonizione della polizia nei confronti di Li Wenliang, uno dei primi medici della nazione ad avvertire del pericolo sul virus, ha anche pubblicato più di 500 articoli, molti dei quali ripetono le affermazioni del regime, quando, nei primi giorni, insisteva che il virus era contenibile e non contagioso. L’8 marzo Pechino ha elogiato Liao come un’eroina che «va controcorrente».
«Non è difficile immaginare quante persone abbia dietro di lei, nell’aiutarla a sfornare articoli così insipidi», afferma Zhang.

Zhang ha anche criticato la persistente e aggressiva campagna di disinformazione del regime, che cerca di far credere che la Cina sia il posto più sicuro al mondo, tanto da convincere i cinesi d’oltremare a tornare a casa.

Il 24 marzo il China Daily ha pubblicato un’intervista a uno studente del Bangladesh che studiava a Wuhan e che si è «offerto volontario» di restare in città per combattere l’epidemia. Costui ha definito la Cina «il posto migliore e più sicuro del mondo» e ha anche affermato che il virus «non è legato alla Cina».

L’amministrazione Trump ha recentemente designato China Daily e altri media statali, tra cui Xinhua e China Global Television Network, come «missioni estere», e «organi di propaganda esplicita del Partito comunista cinese»; ha quindi limitato il numero del personale cinese autorizzato a lavorare negli uffici di questi media, negli Stati Uniti.

Per rappresaglia, il regime cinese ha annunciato che avrebbe espulso i giornalisti statunitensi del New York TimesWall Street Journal e Washington Post che lavorano in Cina.

Il segretario di Stato americano Mike Pompeo, si è rammaricato per la decisione del regime, che «preclude ulteriormente la capacità del mondo di condurre operazioni di stampa libera, il che, francamente, sarebbe davvero un bene per il popolo cinese […] in questi tempi incredibilmente impegnativi a livello globale, dove più informazioni e più trasparenza sono ciò che salverà vite umane».

 

Articolo in inglese: ‘Propaganda Team’: Beijing Muzzles Reporters in Wuhan

 
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