Accoglienza profughi, la parola al Centro Balducci

«Una famiglia di profughi in ogni parrocchia o santuario», con queste parole il Papa ha esortato alla mobilitazione nazionale, rivolta a chiunque abbia la possibilità di aiutare i migranti in difficoltà.

Così, dopo l’appello lanciato domenica 6 settembre, è partita la mobilitazione, che sembra aver già varcato le frontiere. La congregazione dell’Opera don Orione si è già attivata in tutta Italia, e sembra aver passato il messaggio anche in altre Nazioni, tra cui Spagna, Inghilterra, Polonia e alcuni paesi dell’Europa orientale.

Ma ci sono anche associazioni e centri di accoglienza che si occupano di ospitalità da anni. Epoch Times ha intervistato suor Marina Kuruvilla, coordinatrice dell’accoglienza al Centro Balducci di Zugliano, in provincia di Udine. Questa Onlus è attiva dal 1989 e vanta ormai un’elevata esperienza nell’accoglienza, soprattutto per quanto riguarda il reintegro degli stranieri nella comunità.

Come coordinate l’aiuto ai migranti?

«In questa situazione di emergenza, siamo in collaborazione con l’associazione Ospiti in Arrivo; e in più ci coordiniamo con la prefettura gestita dal Comune di Udine. Quando i profughi non hanno nessun collegamento con un centro di accoglienza, Ospiti in Arrivo li segue, fino a che non vengono inseriti nei centri. Molte di queste persone sono di passaggio: infatti tanti afgani non hanno intenzione di rimanere in Italia, perché “non ci sono prospettive”. Rimane la nostra proposta che è quella di integrarsi in un nuovo Paese, come l’Italia, in cui sono arrivati.

«Abbiamo un progetto di integrazione, partendo dall’alfabetizzazione e dal corso di italiano, alla gestione della vita quotidiana e di cittadinanza, con una formazione data da persone esperte: per esempio, per quanto riguarda i diritti e i doveri civili, chiamiamo avvocati o professori di diritto dalle scuole. Per quanto riguarda la pulizia chiamiamo infermieri o medici, e chiamiamo volontari anche per quanto riguarda la gestione quotidiana della raccolta differenziata e della pulizia. Tutto questo perché hanno bisogno di conoscere le regole della nuova realtà che è diversa dal loro Paese».

Cosa sapete di loro?

«È importante considerarle come persone che portano non poca sofferenza, sia fisica che psicologica. Hanno subito delle torture, non sono stati rispettati i loro diritti. A volte vengono coinvolti in questioni etniche e religiose, la maggior parte subite da talebani, sono quindi persone che subiscono tanti tipi di violenza. Persino durante il viaggio, soprattutto in Bulgaria, diversi hanno subito torture e maltrattamenti.

«Sono persone con la loro storia, e quando sento dire “aiutiamoli nella loro terra”, penso che sia impossibile per tanti, perché sono persone che scappano dalla violenza e dalla guerra. Non è possibile tornare nel loro Paese, magari non hanno più nessuno perché sono morti nell’esplosione della bomba o in altre situazioni.

«Quanto alla nazionalità, per la maggior parte sono di provenienza afgana e pakistana. Abbiamo anche persone di provenienza africana che sono arrivate come minori a Lampedusa, e dopo essere stati ridistribuiti nella nostra regione, una volta raggiunta la maggior età, sono stati inseriti nei progetti per gli adulti».

E quanto rimangono nel vostro centro?

«Inizialmente si trattava di un anno o due anni con un percorso d’integrazione, per portare le persone ad un autonomia nella ricerca del lavoro, ma purtroppo negli ultimi anni questa ricerca va peggiorando. La vita lavorativa è un sogno, per cui la permanenza diventa prolungata, con magari anche 4, 5, 6 anni, anche perché per alcuni si parla anche di situazione di malattie gravi: abbiamo un signore malato di cuore, abbiamo una famiglia siriana, con la madre in invalidità e la figlia con la sindrome di Down. Quindi spesso dipende dalle condizioni della persona. Il tutto va avanti grazie al volontariato di persone che stanno facendo sempre più esperienza, e l’accoglienza per metà è resa possibile da una convenzione economica del Comune».

Cosa ne pensa di quanto detto da Salvini, che si è chiesto se l’appello del Papa potrà smuovere una presa di coscienza anche per gli italiani che sono in difficoltà?

«Per me è da tenere in considerazione chi è da aiutare, senza vedere da dove arriva. Penso che il Papa non abbia fatto una considerazione per dare meno importanza agli italiani, ma per andare incontro a tutti quelli che hanno bisogno, che scappano dalla guerra e dalla violenza». 

Intervista rivista per brevità e chiarezza.

 
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