Caso Zte, il microchip cinese è morto

Di Alessandro Starnoni

Dopo che la cinese Zte è stata sanzionata dagli Stati Uniti, la questione della produzione e dell’approvvigionamento dei microchip da usare per le telecomunicazioni è diventato per la Cina un problema enorme: il novanta per cento dei microchip in uso sono importati e nessun nuovo tipo viene sviluppato in Cina, sebbene ogni anno vengano investiti più di un miliardo di yuan in ricerca e sviluppo.

Il 16 aprile 2018, il ministero del Commercio degli Stati Uniti ha annunciato che per sette anni sarà impedito a Zte di vendere qualsiasi componente tecnologico e digitale per le comunicazioni; perciò alcuni componenti dei prodotti di Zte per le telecomunicazioni come cellulari e hardware, sono forniti dall’America. La rivista Forbes sentenzia: ZTE è «prossima alla morte».

Il microchip di fabbricazione americana ha monopolizzato quasi tutta la industria dell’alta tecnologia cinese nell’ambito dell’informazione, nonostante il Pcc insista a dichiarare che la tecnologia del microchip è l’arma più importante della Cina. Di contro, la rivista cinese Caijing ha rivelato che la parte più dolorosa del caso Zte è che ha di fatto reso evidente proprio la debolezza dell’industria del microchip cinese.
Secondo Caijing nell’industria del microchip cinese, mancano dei progettisti leader: le aziende sono piccole, instabili e tecnicamente carenti. Il guadagno di tutte le 500 aziende di design di circuiti integrati è di circa il 60/70 per cento del reddito della sola Qualcomm. Gli investimenti totali usati per la ricerca e lo sviluppo del microchip dell’intero Paese sono minori della cifra investita da una sola compagnia come la Intel.

Dai i dati riportati dalla rivista nel 2017 sono stati importati microchip in Cina per un valore di 37,7 miliardi di dollari, il 10 per cento di aumento rispetto al 2016 in cui la spesa era stata di 26 miliardi di dollari. Le spese per l’importazione del chip sono quasi raddoppiate rispetto all’importazione del petrolio tuttavia gli investimenti del governo di Pechino per la ricerca e lo sviluppo del microchip sono meno del 10 per cento delle spese per l’importazione.

Il caso del Zte ha fatto riemergere il famigerato caso della maxitruffa del microchip Han Xin numero 1. Nel 2003 il professor Chenjin, rettore della facoltà di microelettronica dell’Università di Jiaotong di Shanghai, aveva annunciato: «Han Xin numero 1, è il primo DSPchip con proprietà intellettuale indipendente della Cina». Chenjin ha ottenuto diversi premi e ricevuto anche ingenti fondi da ogni parte della Cina per la ricerca su a dieci vari progetti. Ma, nel 2006, il microchip Han Xin numero 1 si è rivelato un falso: era in realtà un microchip comprato da Motorola, dal quale con la carta abrasiva era stato cancellato il logo originale e sostituito con quello Han Xin.

Dopo le investigazioni è stato confermato che da «Han Xin numero 1» fino a «Han Xin numero 4», esistono prove evidenti di falsificazione. Al falso di Han Xin si aggiunge un altro caso che lega insieme vari elementi interrelati come gli ‘esperti’ della certificazione: l’Università di Jiaotong di Shanghai, il team di ricerca, il governo locale e i funzionari del Pcc. Tutti sanno che l’ex capo del Pcc Jiang Zemin è laureato all’università di Jiaotong di Shanghai e conservava con essa forti legami. Dopo lo scoppio del caso di Chenjin il governo ha semplicemente licenziato il ricercatore senza promuovere alcuna azione legale.
Attualmente il professor Chenjin ha varie borse di studio e ricerca in altre aziende.

In realtà la Cina ha investito circa un miliardo di yuan già da anni nella ricerca sui semiconduttori. Ma secondo Lukou Day che ha scritto un articolo in proposito sul sito della compagnia internet cinese Souhu «il problema non sono i soldi ma come li hanno usati».

DOVE SONO FINITI I FONDI PER LA RICERCA?

Secondo l’articolo di Souhu nel 2016 diversi media hanno puntato la loro attenzione sugli investimenti per la ricerca scientifica: scavando a fondo hanno scoperto che solo il 40 per cento dei soldi erano stati usati per la ricerca mentre il 60 per cento erano stati spesi in viaggi e convegni. Le università cinesi infatti possono rimborsare le spese di viaggio, benzina e incontri usando i soldi devoluti alla ricerca dati dal governo: una vera manna (è stato rivelato, ad esempio, che all’università di Anhui, i soldi per la ricerca sono stati usati per rimborsare le spese di serate nei locali di karaoke, pediluvi, bollette del condominio oltre che per viaggi all’estero che hanno subito un’impennata clamorosa all’arrivo dei fondi).

Inoltre le organizzazioni di ricerca in Cina preferiscono compare attrezzature più che tenere convegni: ogni anno appena ricevono i soldi, cambiamo tutte le attrezzature negli uffici, inclusi Pc, scanner, cellulari; chi ha più di un progetto, può anche comprare più computer e gli ultimi modelli di tutte le attrezzature.

Il 26 aprile, il professore Hu Xingdou ha detto a Voice of America che la questione del microchip ha fatto emergere il legame distorto che c’è ora in cina tra lo sviluppo moderno del Paese e la creatività del suo popolo: «il Paese non ha nessuna fede. Si crede solo al potere e ai soldi, non si da credito ai contratti, né all’integrità o all’onestà. La società è piena di un’atmosfera in cui regna la falsità e la verbosità vuota e magniloquente ma priva di contenuti. In un ambiente cosi, dove la libertà non esiste, ma l’auto-celebrazione è diventata una tendenza. Avere spirito creativo e [affermare di, ndr] mantenere la proprietà intellettuale indipendente del microchip, non è molto realistico».

Negli ultimi dieci anni, i plagi, le truffe, la corruzione nei fondi per la ricerca scientifica, sono in Cina all’ordine del giorno. Nel 2017 l’editore internazionale Springer ha annunciato che sono stati tolti 107 articoli nel giornale accademico Tumor Biology, a causa delle falsificazioni nei report dei revisori. Tutti questi 107 articoli arrivavano dalle università cinesi, tra cui le università di Jiaotong di Shanghai e di Zhejiang, oltre a varie altre facoltà di medicina cinesi.

 
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