Amministrative: crollano le ideologie e trionfa la «tattica»

La partita delle amministrative si è chiusa 2-2 tra il Pd e il Movimento 5 Stelle, con l’outsider De Magistris che si riconferma a Napoli. Nonostante il pareggio, il vero vincitore è il Movimento, che con Virginia Raggi si è aggiudicato la Capitale e con Chiara Appendino ha conquistato un importante avamposto della sinistra: la Torino di Fassino, il cui operato, tra l’altro, è stato spesso elogiato dal pubblico.

Nulla, invece, per la destra, sebbene la vittoria a Milano fosse rimasta una possibilità concreta fino all’ultimo momento. Salvini e Berlusconi litigano invece a Roma, dove la frammentazione della destra non ha pagato affatto, al contrario di quanto il Cavaliere (ex Cavaliere, in realtà) immaginava.

Per commentare l’esito delle amministrative, Epoch Times ha intervistato Alessandro Lattarulo, politologo e docente di Sociologia generale presso l’Università Aldo Moro di Bari.

Vittoria del M5S a Roma. Sarà in grado di governarla?

«Beh, credo di sì. Da questo punto di vista non vedo quali motivi ostativi possano esserci. L’unica vera riflessione secondo me è alla base del voto, più ancora che a Roma (che comunque è un caso sui generis) a Torino, dove c’è stato probabilmente il voto più politico tra tutte le grandi città».

In che senso?

«Nel senso che nel voto di Torino, analizzando i flussi elettorali e in particolare la scomposizione del voto tra primo e secondo turno, c’è stato chiaramente un deliberato intento del fare il tutti contro uno, il tutti contro Renzi, dato che Fassino è visto come persona molto vicina a Renzi, una persona per la quale Renzi si era speso in campagna elettorale al primo turno, e quindi in questo senso quello che era un voto amministrativo è stato dirottato in voto squisitamente politico».

Anche a Roma Salvini ha indicato ai suoi di votare il Movimento 5 Stelle…

«Anche a Torino, ovunque, a Bologna…La caratteristica di questo voto è stata quella della saldatura tra Movimento 5 Stelle e Centrodestra in funzione anti-Pd e in particolare in funzione anti-Renzi. Dovuta certo a mille cause, ma il dato politico è stato quello».

Renzi ha pagato la sua rottura con Berlusconi?

«Questo sicuramente, anche se poi a vederla tutta è venuto a crearsi un paradosso. Il paradosso è che dopo la rottura che c’è stata del Patto del Nazareno, Renzi – a differenza di quella che era la retorica dei giornali di centrodestra come Libero o Il Giornale nei primissimi mesi del mandato, secondo cui Renzi veniva visto come un liberale di sinistra, non più il comunista di turno – adesso è tornato a essere una persona della vecchia sinistra, una persona con i soliti difetti, mentre invece da sinistra, con tutto l’arcipelago di Sinistra Italiana, ma anche la sinistra del Pd, lo si accusa di essere totalmente di destra. Il ché, se dovessimo fare della matematica, aritmetica o qualcosa di simile, dovrebbe almeno dimostrare la contradditorietà di una delle due posizioni».

Condivide l’analisi per cui si sta indebolendo l’interesse dei cittadini verso le ideologie? Per esempio Renzi opera alcune scelte che possono sembrare molto di sinistra, altre davvero poco di sinistra. Lo stesso vale per il Movimento 5 Stelle. Anche giudicando dalle candidature del Pd, Giachetti è un po’ quello che nel partito è meno malvisto dal M5S perché aveva sostenuto il ritorno al Mattarellum. Poi c’è Sala che è un outsider. Con l’eccezione di Fassino…

«Ma infatti la caratteristica di questo voto è stata esattamento questa: in un momento di vuoto delle ideologie, il voto è stato fortemente politicizzato, andando persino oltre quello che accade solitamente nel voto amministrativo. Allora si è inseguito esclusivamente un obiettivo di pura tattica. Pura tattica. Persino a Milano, persino a Bologna, ovunque è stato così. Però la mia analisi principale su questo voto verte sul caso di Torino, e cerco di sintetizzarla: la caratteristica principale che mi sorprende, e tra virgolette un poco mi spaventa, come analista politico, è questa: il Movimento 5 Stelle è sicuramente il movimento che sta facendo più politica tra la gente di tutti gli altri partiti. Questo è un dato di fatto indubitabile. Presenta tuttavia come candidata una ragazza milionaria, Appendino, che ha il padre che è il numero tre di Confindustria Piemonte – operazione che detto per inciso se fosse stata fatta da Berlusconi o da Renzi avrebbe condannato entrambi alla crocifissione sul web e altrove – e la Appendino riesce a vincere anche nelle periferie essendo una milionaria. Questo secondo me pone un problema politico molto profondo: non si capisce allora più in che misura l’incarnazione da parte di un candidato di sentimenti che pure sono provati all’interno delle periferie, come il disagio lavorativo, l’insicurezza, la paura eccetera, possa poi coerentemente essere portato e cavalcato – in tutto l’Occidente, non solo in Italia – da persone che questi problemi non ce li hanno proprio. Perché se pensiamo a Trump negli Stati Uniti, se pensiamo al voto austriaco, se pensiamo a quello, appunto, che è successo a Torino, ci sono questi milionari, anzi miliardari avremmo detto una volta, che si fanno portavoce di un disagio che loro, come spiega ad esempio Zygmunt Bauman, non proveranno mai. Vivono in resort dorati, hanno un tenore di vita completamente dissonante con la voce del popolo che vogliono rappresentare. Intendiamoci, il problema, ci mancherebbe altro, non è che l’Appendino sia del Movimento 5 Stelle: di qualunque partito fosse stata, incarna una rivoluzione nelle parole che tuttavia mi sembra cavalcata e incarnata, senza essere effettivamente congruente con un esempio personale…Non si tratta di una donna del popolo, per dirla in questi termini. L’Appendino non è una donna del popolo. L’Appendino è una parte dell’establishment industriale, alto-borghese di Torino, che si fa portavoce di istanze del popolo in maniera secondo me contradditoria. Allora che cosa succede? Succede, molto semplicemente, che da parte del popolo c’è quella che in sociologia si dice una identificazione proiettiva, verso queste persone, che è un meccanismo classico e tipico del capitalismo più estremo. Cioè io vedo nella persona di successo, nella persona di bell’aspetto, ricca, con una famiglia alle spalle, quello che vorrei essere, e quindi sono già convinto che le cose non potranno cambiare alla radice e la voto perché spero un giorno di poter essere quello che è lei. Quindi, detto in sintesi estrema, da mero analista, l’Appendino mi sembra l’esatta continuazione, la versione aggiornata e al femminile di Berlusconi, del Sogno Italiano».

Parlando di Berlusconi, cosa ne pensa della strategia che ha tirato fuori a Roma, di appoggiare Marchini? Ovviamente non ha funzionato, ma pare che i sondaggi davvero facessero sperare in quella direzione. Sbaglia a fidarsi dei sondaggi?

«Numeri alla mano è stata una scelta suicida, ma è stata una scelta suicida soprattutto il costringere Marchini a voler scegliere, a doversi presentare non più con quel profilo autonomo che aveva coltivato da tre anni a questa parte, ma costringerlo a presentarsi sotto una etichetta di partito, tra l’altro il cui brand – se vogliamo dirlo in termini economici – oggi non gode di grandissimo successo. Se in più poi mettiamo sull’altro piatto della bilancia che a Roma c’è un insediamento di destra, destra sociale e destra borghese, molto radicato da tempo, aver spacchettato queste due cose è stato dal punto di vista politico un suicidio nell’immediato. Anche se naturalmente questo lo dobbiamo leggere nel complesso, e quindi nel braccio di ferro tra Berlusconi e Salvini per ricostruire il centrodestra. Ma attorno a quale presupposto? Al presupposto populista, o al presupposto moderato? Beh, la risposta che queste elezioni hanno dato è che sicuramente il presupposto populista, Salviniano, Lepeniano, come è stato definito dai giornali, ha un suo appeal ma non riesce ad andare oltre certe dimensioni. Quando invece ci sono candidati più moderati, come il caso di Parisi a Milano che veramente è nato dal nulla, la cosa funziona molto meglio. E non escludo che Parisi possa aspirare a qualche ruolo di livello nazionale, perché è comunque una persona in grado di collocarsi ovunque, in grado di piacere molto al centrodestra ma non ha al contempo le isterie anti europeiste, anti euro, quindi può stare bene anche a quell’establishment molto europeista».

Che ne pensa dell’esperienza di De Magistris a Napoli?

«L’esperienza di De Magistris è un unicum. È un unicum però per analizzare il quale, andrebbe analizzata anche l’affluenza alle urne. Perché l’affluenza alle urne, è già molto bassa in Italia, e questo è un problema che sinceramente mi porrei a livello di tutti, a partire anche dai 5 Stelle che accusavano prima i vincitori, di vincere col 50 per cento, e oggi non fanno loro una riflessione su questo. Poi De Magistris sinceramente peggiora la situazione in maniera drammatica. De Magistris, tra l’altro, io credo che riesca a fare quello che nel Mezzogiorno è il tipico laboratorio del fondere certa sinistra movimentista-ribellista con il grillismo, riuscendo però nella realtà di Napoli ad assorbirlo molto, e questo ad esempio, come notazione nazionale – e andrebbe ben sottolineato e vedo che nessuno lo fa – è un duro colpo per Di Maio e le sue ambizioni. Perché se nella Napoli di Di Maio, De Magistris riesce lui a fare il grillino di turno, per così dire, questo è un grave problema. Anche se poi non va escluso che in elezioni nazionali tanta parte di quel consenso che ottiene De Magistris possa essere – anzi secondo me sicuramente sarà – un consenso che se non trova a sinistra degli sbocchi di questo tipo, andrà probabilmente ai grillini. Perché nel Mezzogiorno, molto più che nel Nord Italia, il travaso di voti dal centrosinistra è andato principalmente al Movimento 5 Stelle. O meglio, detto al contrario, il M5S, mentre al centronord, fin dal 2013, prende molti più voti dal centrodestra e dall’astensionismo, nel Mezzogiorno li coglie principalmente dal centrosinistra».

Chi è il peggiore sconfitto di queste elezioni?

«Più che parlare del peggiore sconfitto, per me il caso grave è quello di Torino. Persino la Appendino in conferenza stampa ha fatto i complimenti a Fassino per l’opera compiuta dalla sua giunta e lo ha fatto – mi è sembrato – in maniera non retorica. Allora Fassino vedo che riceve complimenti da tutti ma poi viene sconfitto bruscamente. E questo allora pone un problema di riflessione più generale, che possiamo riassumere in questi termini: in politica viene premiato dagli elettori il fare, il fare bene, il fare quello che gli elettori vogliono, o invece premia molto di più la narrazione complessiva per come è veicolata dai media e da Facebook? È una mia opinione personale, ma oggi purtroppo mi sembra che prevalga la narrazione costruita a tavolino».

Intervista rivista per brevità e chiarezza.

Quelle espresse in questo articolo sono le opinioni dell’intervistato e non riflettono necessariamente il punto di vista di Epoch Times.

 
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