Nell’estate del 1534, Thomas More (1478-1535) – umanista, scrittore e politico inglese – fu imprigionato per essersi rifiutato di riconoscere re Enrico VIII come capo della Chiesa d’Inghilterra. Da una squallida cella di prigione, lo statista cattolico scrisse ad amici e familiari lettere in cui indicava come la fede preservasse la sua integrità morale, nonostante la morte imminente.
L’Inghilterra degli anni Trenta del Cinquecento era afflitta da disordini politici diffusi. Il teologo tedesco Martin Lutero nel 1517 aveva pubblicato le novantacinque tesi nelle quali enunciava una serie di critiche contro la Chiesa cattolica per quella che egli definiva una palese corruzione. Quelle denunce ebbero un effetto a catena in tutta Europa, dando inizio a quella che gli storici definiscono Riforma protestante.
Sebbene le cause fossero molteplici, la Riforma in Inghilterra entrò pienamente in vigore quando re Enrico VIII decise di separarsi dalla Chiesa cattolica: desideroso di avere un erede maschio, Enrico decise di divorziare da Caterina d’Aragona, una nobildonna con importanti legami con la Spagna, e di sposare Anna Bolena. Nonostante questo suo desiderio, papa Clemente VII rifiutò di annullare il matrimonio, con la motivazione che un’unione sacra non poteva essere sciolta. Contrariato dal rifiuto, Enrico decise di staccarsi dalla Chiesa cattolica e fondò la Chiesa d’Inghilterra, separandola dalla giurisdizione papale e introducendo nuove procedure che gli permisero di divorziare da Caterina. L’istituzione della nuova chiesa approfondì la divisione, spesso violenta, tra cattolici e protestanti, che è continuata fino ai tempi moderni.

Da devoto cattolico ed ex Lord Cancelliere di Enrico VIII, More si oppose alla decisione radicale del re. Per i cattolici, il Papa era ed è tuttora la massima autorità terrena, More non poteva concedere al re privilegi speciali, rischiando di minare l’autorità del proprio capo spirituale.
Il 17 aprile 1534, le guardie scortarono il “dissidente” More in una cella della Torre di Londra, in cui trascorse l’ultimo anno della sua vita. Alla sua famiglia furono concesse solo visite limitate, tuttavia poté continuare a scrivere. Nei mesi di prigionia, completò Dialogo del conforto nelle tribolazioni, che esplora il ruolo della fede nell’alleviare il tumulto fisico e psicologico. Il testo ricorda la Consolazione della filosofia del filosofo e senatore romano del V secolo Boezio, anch’essa scritta da una cella di prigione prima dell’esecuzione.
Sia More che Boezio vogliono ricordare a chi leggerà i loro scritti che la mente umana può conservarsi libera, indipendentemente dalle circostanze del corpo. More scrive: «la mente non dovrebbe essere afflitta né dal dolore che il corpo prova né dalle occasioni di pesantezza offerte e date all’anima stessa». Ostacoli fisici come la fame e la prigionia ci privano della capacità di muoverci e prosperare, ma non possono ostacolare completamente il nostro stato interiore. Finché viviamo, vive anche la nostra libertà più importante: la libertà di scegliere come reagire alle circostanze.

Quasi tutti alla corte del re avevano prestato giuramento, promettendo fedeltà alla corona nella speranza di evitare ripercussioni. Come spiega More alla figlia Margaret, il re gli aveva dato diverse opportunità per «abbandonare il dubbio della [sua] coscienza incerta nel rifiutare il giuramento e prendere la strada sicura dell’obbedienza al [suo] principe». Eppure More non cedette. Non era interessato alle scelte degli altri: non li avrebbe «condannati», né si sarebbe assunto il compito di giudicare le loro decisioni, perché credeva che ognuno dovesse lottare con la propria coscienza in modo indipendente.
More ribadiva alla figlia di essere arrivato ai propri convincimenti «dopo una lunga riflessione e una diligente ricerca sulla questione». In qualità di servitore del re, sapeva di dover fedeltà alla corona, opporsi al re significava rinunciare a un dovere civico e politico e per un uomo leale come More, era una decisione difficile. Ma la fedeltà al potere temporale del re era subordinata alla sua fede cristiana, che esigeva fedeltà a un potere più grande di qualsiasi regno terreno. Come scrisse in una lettera al collega Thomas Cromwell, eminente avvocato e primo ministro di Enrico VIII, «io devo prima guardare a Dio».
La tensione tra fede e politica ha caratterizzato l’intera vita di More. Nato da una famiglia cattolica, More dimostrò fin dall’infanzia un grande potenziale intellettuale. A quattordici anni fu ammesso all’Università di Oxford. Dopo aver studiato per due anni greco, latino e filosofia abbandonò gli studi per dedicarsi alla formazione giuridica. Iniziò a esercitare la professione legale nel 1502 guadagnandosi la reputazione di abile avvocato e, in seguito, di politico. Nel corso della carriera, la sua fede non vacillò mai, pensò anche di abbandonare la professione per diventare monaco, ma alla fine scelse di servire l’Inghilterra come laico.
Nel 1505 sposò Joanna Colt, dalla quale ebbe quattro figli. Istruì la giovane moglie in musica e letteratura, e i suoi figli divennero alcune delle persone più colte dell’Inghilterra del XVI secolo. Poco dopo la morte improvvisa di Joanna, More si risposò e, pur non avendo da lei altri figli, si prese cura della figlia della seconda moglie come se fosse sua, e provvedendo perché anche lei ricevesse un’istruzione completa.
Nonostante i frequenti viaggi di lavoro e gli impegni gravosi, More scriveva sempre ai propri parenti, impartendo loro consigli utili e incoraggiandoli a coltivare la virtù. Riuscì a mantenere un equilibrio esemplare tra gli impegni professionali, religiosi e familiari, fino a quando l’ultimatum del re non stravolse le sue priorità.

La maggior parte delle lettere che More riceveva in prigione provenivano dalla figlia Margaret Roper che, naturalmente, era preoccupata per la sua salute. Lui la rassicurava costantemente dicendole che la situazione non era così grave come lei pensava e che le preoccupazioni materiali per lui erano insignificanti. Scriveva: «non desidero nulla di più di quello che ho» perché «sono in buona salute fisica e in buona tranquillità mentale». Margaret insisteva nel voler persuadere il padre a prestare giuramento, e More sentiva la difficoltà di rifiutare la richiesta della figlia, ma spiegava anche che la sua convinzione era definitiva: «Se non fossi stato, mia amata figlia, fermo e risoluto (confido nella grande misericordia di Dio), già da tempo la tua lamentosa lettera mi avrebbe turbato non poco, sicuramente più di ogni altra cosa».
Egli scelse di rimanere fedele a quello che riteneva giusto e che avrebbe salvato la sua anima dalla «dannazione eterna», anche contro la volontà di Margaret. Sebbene non desse ascolto alle suppliche della figlia, l’amore paterno di More non venne mai meno. Spesso inviava pensieri gentili e parole di conforto a tutti i suoi parenti, pregando per la loro buona salute e incoraggiandoli a diventare più forti attraverso il loro dolore. Una delle ultime cose che scrisse fu una breve nota a Margaret, in cui ricordava il loro ultimo incontro: «Non ho mai apprezzato il tuo comportamento nei miei confronti più di quando mi hai baciato l’ultima volta, perché amo quando l’amore filiale e la devota carità non hanno tempo per occuparsi delle convenzioni mondane. Addio, mia cara bambina, prega per me, e io pregherò per te e per tutti i tuoi amici, affinché possiamo rivederci felici in paradiso».

Nel luglio 1535, More fu processato per tradimento. Il processo fu rapido: il 6 luglio 1535 fu decapitato, ma non prima di aver pronunciato le parole famose: «Muoio da buon servitore del re e, prima ancora, di Dio».
A prescindere dalle convinzioni di More, il suo esempio ha un valore universale: mentre la morte si avvicinava, non perse mai la compostezza, trovò forza e conforto nelle proprie convinzioni, a cui arrivò solo dopo un’attenta riflessione. La fiducia in una legge superiore alla politica gli permise di allontanare la paura, mentre la corrispondenza con i propri cari preservò la sua umanità nonostante le circostanze avverse. More avrebbe potuto accondiscendere alle richieste del re e continuare a vivere. Scelse, invece, l’integrità morale, che considerava molto più importante della semplice sopravvivenza.
Tommaso Moro è stato canonizzato nel 1935 da papa Pio XI.