La leva contro il Pcc che l’America non ha ancora usato

di Petr Svab/Emiliano Serra
15 Giugno 2025 14:11 Aggiornato: 15 Giugno 2025 23:24

Tra Stati Uniti e regime comunista cinese non c’è (per ora) uno scontro militare, ma una cosiddetta “guerra senza restrizioni” combattuta su diversi campi di battaglia: economia, cyberspazio, cultura e informazione. In questo contesto, la guerra dell’informazione gioca un ruolo centrale, poiché determina cosa sanno le persone e ne influenza pensieri e azioni.

Il Partito comunista cinese conduce questa battaglia su più fronti, dalla propaganda alla denigrazione di ogni voce critica. Ma in determinati ambiti – come i diritti umani – il regime non è credibile. Di fronte a crimini particolarmente gravi, l’unica cosa che la dittatura cinese può fare è negare tutto e nascondere le tracce. È proprio in questi ambiti che, secondo diversi analisti, gli Stati Uniti potrebbero esercitare una pressione decisiva sul regime.

Uno dei crimini più gravi (e non il più grave in assoluto) perpetrati dal Partito comunista cinese è il prelievo forzato di organi. il Pcc ha molta paura che venga fatta piena luce su quanto già emerso e che la comunità internazionale ne prenda atto: il paragone con l’Olocausto di Hitler sarebbe immediato e devastante. Le prime denunce sul prelievo forzato di organi risalgono al 2006 e si basano su testimonianze di informatori. Nel corso degli anni, diverse indagini indipendenti hanno prodotto una mole di prove tale da portare a una condanna da parte di un tribunale indipendente britannico nel 2019. Secondo il verdetto, gli organi — destinati all’industria cinese dei trapianti — provengono in larga parte da praticanti del Falun Gong e altri dissidenti, incarcerati per motivi di coscienza e (di solito) uccisi al momento del prelievo forzato. Cionostante, nessun governo ha condotto un’indagine ufficiale sul questo crimine contro l’Umanità.

Di fronte a questo orribile crimine, i governi e i mass media occidentali hanno finora usato la tecnica dello struzzo (con alcune eccezioni) nella speranza vana che l’apertura economica avrebbe favorito una trasformazione politica. Ma questa visione è cambiata dopo tre eventi: la gestione a dir poco opaca della pandemia da parte di Pechino, la repressione della democrazia a Hong Kong e il sostegno fornito dal regime cinese alla Russia nella guerra contro l’Ucraina.

Negli ultimi anni, il Parlamento degli Stati Uniti ha approvato risoluzioni di condanna, ma senza effetti concreti, mentre un’indagine ufficiale, con risorse e volontà politica costringerebbe il Pcc a rispondere pubblicamente dei propri crimini.
Secondo gli esperti, il prelievo forzato di organi rappresenta il punto di rottura dello scudo di propaganda con cui il regime cinese – con la complicità di certi ambienti occidentali – costruisce un’immagine “rispettabile” all’estero. Ma, a differenza di altre questioni, come il commercio o le tensioni militari nell’Indo-Pacifico, su questo tema nessuno potrebbe giustificare le azioni del Partito comunista cinese.

Una denuncia aperta di tali crimini permetterebbe agli Stati Uniti e/o all’Occidente nel suo insieme, di assumere una posizione morale chiara. Resta da capire se vi sia la volontà politica di farlo. La consapevolezza del Pcc rispetto a questo rischio è alta, soprattutto in presenza di un’amministrazione americana ostile. In America, alcuni passi sono già stati fatti: di recente, la Camera dei deputati degli Stati Uniti ha approvato la “Legge sulla protezione del Falun Gong” e la “Legge contro il prelievo forzato di organi”; se passeranno anche al Senato, imporranno sanzioni, vieteranno ogni cooperazione sui trapianti con la Cina e obbligheranno più ministeri a produrre rapporti ufficiali sul tema.

In assenza di una giustificazione possibile, il regime cinese fa quello che fanno sempre tutte le dittature: manipola e stravolge i fatti nel tentativo di screditare proprio le vittime del suo stesso crimine. Nel 2022, infatti, il segretario generale del Pcc, Xi Jinping, ha lanciato una nuova campagna di persecuzione internazionale contro il Falun Gong, fatta di azioni legali basate sul nulla e propaganda sulla stampa e sui social occidentali. E qui si tocca il nervo scoperto del regime cinese: la sua legittimità. Mentre le dinastie cinesi del passato rivendicavano un mandato divino e le democrazie si fondano sul voto popolare, il Partito non dispone di alcuna fonte riconosciuta di legittimità. Dopo aver preso il potere con una “rivoluzione” – che più che alla sommossa popolare spontanea  raccontata dai comunisti, era molto più simile a un banale colpo di Stato, contro il governo legittimo di Chiang Kai-shek – e dopo il fallimento della Rivoluzione culturale (e quindi il fallimento del comunismo a livello di principio), in Cina il Partito ha puntato tutto sulla crescita economica.

Al popolo cinese, cioè, il regime a partire dagli anni ’80 ha proposto/imposto un patto: dittatura in cambio di benessere. Per qualche decennio questa sorta di scambio ha funzionato (e quando non ha funzionato, come in piazza Tienanmen nel giugno 1989, la dittatura del Pcc lo ha fatto funzionare a colpi di mitragliatrice sulla folla inerme). Ma oggi l’economia cinese è in grave crisi: con il devastante crollo dell’immobiliare, i debiti, le merci invendute, i capitali esteri che non ci sono più e le tensioni commerciali con l’America, anche questa fuga in avanti sta dimostrando tutta la propria inconsistenza.

Il Partito comunista cinese può cercare di restare in sella e resistere alla crisi economica come ha sempre fatto: schiacciando ogni dissenso con la violenza. Ma nell’attimo in cui venisse apertamente denunciato per i crimini perpetrati contro i praticanti del Falun Gong, insieme alla propria immagine, il Pcc perderebbe ogni legittimità anche agli occhi del mondo intero. E questa, con ogni probabilità, sarebbe la sua fine.


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