A metà del XIV secolo, Francesco Petrarca fece qualcosa che nessuno aveva mai fatto prima: scrisse lettere ai morti. Tra i suoi destinatari vi erano il poeta epico greco Omero e gli scrittori romani Cicerone, Seneca e Livio. Le sue lettere sono piene di domande, lodi e rimproveri, sono un esempio significativo non solo dal punto di vista letterario ma anche dell’importanza di dare vita a un sorta di amicizia con i grandi pensatori del passato.

Francesco Petrarca nacque ad Arezzo nel 1304 da Ser Petracco, notaio e amico di Dante Alighieri e morì nel 1374. Come Dante, Ser Petracco era stato bandito da Firenze per motivi politici e, dopo aver vissuto in diversi luoghi della Toscana, si trasferì con la famiglia ad Avignone, sede della curia papale che Clemente V spostò da Roma, e che per circa 70 anni divenne residenza dei papi. La giovinezza trascorsa tra l’Italia e la Francia instillò in Petrarca una grande curiosità per i luoghi stranieri, che lo rese un appassionato viaggiatore per tutta la vita. Pur avendo completato sette anni di studi giuridici in Francia e in Italia, Petrarca disprezzava i tribunali, vedendo negli avvocati persone disoneste che vendevano la loro professionalità per guadagni materiali. In una lettera indirizzata ai posteri scrisse: «Mi era penoso apprendere un’arte che non avrei potuto praticare in modo disonesto e che difficilmente avrei potuto sperare di esercitare in altro modo». Se il Diritto rappresentava un mondo avido e corrotto, la filosofia e la poesia latina attiravano il giovane Petrarca come attività più degne di essere perseguite. Più avanti nella stessa lettera, osservava: «Possedevo un intelletto equilibrato piuttosto che acuto, incline a ogni tipo di studio buono e salutare, ma particolarmente propenso alla filosofia morale e all’arte della poesia».

All’età di 22 anni, Petrarca tornò ad Avignone, ma la lasciò poco dopo a causa di una «innata repulsione per la vita di città», trasferendosi nella tranquilla valle della Vaucluse dove godeva di tutto il tempo per leggere, scrivere e iniziare a comporre poesie. Il suo primo progetto, il poema epico Africa, racconta del generale romano Scipione l’Africano, uno dei più celebri strateghi militari della Storia, che sconfisse il temibile Annibale nella seconda guerra punica nel 202 a.C. L’opera, prima ancora di essere terminata, valse a Petrarca la nomina a “poeta laureato” d’Italia. Seguì la fama e alcune delle figure più influenti d’Europa lo chiamarono alle loro corti.

Spinto da quella che definiva «una grande inclinazione e dal desiderio di vedere nuovi luoghi», Petrarca iniziò a viaggiare molto in Italia e nel sud della Francia, trovando ovunque ospitalità. Spesso si avventurava nelle biblioteche e nei monasteri, alla ricerca di manoscritti smarriti di libri antichi; nel 1345, mentre esplorava una biblioteca nella cattedrale di Verona, si imbatté in una polverosa collezione di lettere di Cicerone. L’oratore romano aveva scritto al fratello Quinto, a un caro amico, Attico, e a uno dei suoi colleghi, Bruto. La scoperta di queste lettere da parte del Petrarca è citata spesso come il punto di partenza del Rinascimento umanistico, un periodo influente di fervente erudizione che cercava di far rivivere il mondo antico della Grecia e di Roma. Segnò anche l’inizio del rapporto speciale di Petrarca con gli autori antichi che tanto ammirava.
Nelle Lettere agli autori classici, Petrarca si rivolgeva a Cicerone e ad altri autori che aveva imparato ad amare come “amici”. Confessava la sua ammirazione per i loro successi e li rimproverava persino come una madre potrebbe rimproverare un figlio. Attraverso questa attività insolita e originale, l’umanista aggiunse una nuova chiave di lettura che caratterizzò in seguito il Rinascimento: la convinzione che la saggezza antica non fosse limitata a un unico periodo storico, ma potesse continuare a parlare a tutti, sempre.
OMERO
Il primo degli autori a cui Petrarca si rivolse fu Omero, il mitico genio greco autore dell’Iliade e dell’Odissea. Per Petrarca, Omero rappresentava una fonte vivente di ispirazione e si rivolgeva a lui come a «un amico desiderato». Scriveva all’antico poeta come se ne sentisse letteralmente la presenza, proprio come ci si sentirebbe dopo un piacevole ed esaltante incontro con uno sconosciuto:
Ho fatto i preparativi per accoglierti con il massimo entusiasmo e devozione nel profondo del mio cuore. In una parola, il mio amore per te è più grande e più caldo dei raggi del sole, e la mia stima tale che nessuno potrebbe nutrire una più grande.
Nonostante la sua erudizione, Petrarca non conosceva il greco e le celebri poesie di Omero gli arrivavano solo tramite valutazioni di seconda mano e traduzioni latine incomplete. Questa barriera linguistica spinse l’umanista a studiare il più possibile il greco e a incoraggiare gli studiosi a tradurre le opere di Omero, in modo che anche altri potessero ammirarne la bellezza. Ma pur non conoscendo il greco, Petrarca aveva riconosciuto la grandezza del poeta, a cui manifestava grande riconoscenza.

CICERONE
In una delle due lettere all’oratore e statista Cicerone, l’umanista espresse sia ammirazione che delusione. Ringraziò Cicerone per avergli insegnato a scrivere bene: «È stato sotto la tua guida, per così dire, che ho acquisito questa abilità come scrittore». Come molti suoi contemporanei, Petrarca credeva che copiare frasi, ripetere passaggi ad alta voce e seguire attentamente lo sviluppo degli argomenti di un autore fosse uno dei modi migliori per diventare uno scrittore, un oratore e un pensatore migliori. Cicerone, il retore «per eccellenza», era incomparabilmente istruttivo, tuttavia, l’ammirazione di Petrarca si trasformò rapidamente in rimprovero. Durante la sua vita, Cicerone fu coinvolto in diverse diatribe politiche, che portarono al suo assassinio nel 43 a.C. Petrarca chiese al romano:
Quale falso splendore di gloria ti ha coinvolto nelle dispute e nelle lotte tipiche dei giovani e, spingendoti qua e là attraverso tutte le vicissitudini della fortuna, ti ha condotto a una fine indegna per un filosofo?
Sebbene Cicerone incarnasse l’erudizione esemplare e l’eccellenza retorica, Petrarca rimarcava che la sua pericolosa ambizione lo aveva portato a smarrire la retta via, non diversamente da alcuni contemporanei di Petrarca. Infatti l’umanista lamentava lo stato della sua Italia natale: «Credimi, Cicerone, se tu venissi a conoscenza dello stato di decadenza del nostro Paese, verseresti lacrime amare». Nonostante però l’oratore romano avesse ceduto alle questioni mondane, possedeva tuttavia una cultura senza pari e Petrarca riteneva che gli uomini del suo tempo non potessero dire altrettanto.
LIVIO
Le riflessioni di Petrarca sulla società del suo tempo continuano in una lettera allo storico romano Livio (59 a.C.-17 d.C.), autore di una monumentale Storia dell’antica Roma, dalla sua mitica fondazione nel 753 a.C. fino ai tempi dello storico stesso. Petrarca si lamentava con Livio del fatto che le persone fossero ossessionate da preoccupazioni materiali che le distoglievano da obiettivi più nobili. Questa volta scrisse con maggiore frustrazione:
Spesso sono pieno di amara indignazione nei confronti della morale odierna, in cui gli uomini non apprezzano nulla se non l’oro e l’argento e non desiderano nulla se non i piaceri sensuali e fisici. Se questi devono essere considerati l’obiettivo dell’umanità, allora non solo le bestie mute dei campi, ma anche la materia insensibile e inerte hanno un obiettivo più ricco e più elevato di quello che si propone l’uomo pensante.
Confidando a Livio le proprie riserve sullo stato del mondo, Petrarca acquisì chiarezza sul modo per cercare la virtù: come Cicerone, Livio lo aiutò a orientare il proprio senso morale per evitare attività indegne, che lo attiravano nelle corti reali che ora si trovava spesso a frequentare.
Per Petrarca, leggere lo storico latino non era solo un modo per riflettere sul presente, era anche un sano diversivo da esso. Come confessò allo storico: «tu mi hai fatto dimenticare così spesso i mali del presente e mi hai trasportato in tempi più felici». Le storie di Livio su persone e luoghi del passato consolavano lo scrittore preoccupato, così come gli amici si consolano a vicenda nei momenti del bisogno.

Per Petrarca, Omero, Cicerone e Livio non erano solo autori per cui nutrire timore e rispetto: benché fossero morti, continuavano a vivere nella sua immaginazione, erano amici con cui potersi confidare, con cui conversare e attraverso i quali poter imparare che cosa significhi appartenere a una comunità che trascende il tempo.
Sebbene Petrarca considerasse lo studio della Storia e la lettura degli autori antichi come una via di fuga «per dimenticare il proprio tempo», il suo rapporto con il passato non si limitava a questo, non lo spingeva a ritirarsi dal mondo, accontentandosi di leggere i testi che amava nella solitudine della propria casa. Dietro i suoi faticosi tentativi di recuperare testi perduti vi era il desiderio di aiutare i suoi contemporanei a vivere una vita migliore e più saggia. Non scelse di rinunciare alla speranza, ma si rivolse al passato in cerca di aiuto, avvicinandosi a Omero, Cicerone, Livio e altri come loro non considerandoli autori morti, ma vedendo in loro fonti da cui attingere una visione migliore di sé stesso e del mondo. Le sue lettere sono un invito a seguirne l’esempio.



