Referendum, sulla Costituzione o sul governo Renzi?

Il referendum costituzionale di ottobre sul ddl Boschi sarà il banco di prova finale per Matteo Renzi e il suo governo. Non solo perché il presidente del Consiglio ha dichiarato che si dimetterà in caso di vittoria del no, ma anche perché il referendum indetto per approvazione della modifica della Costituzione, sarà l’occasione di conferire o revocare la ‘benedizione popolare’ all’intero progetto di riforma del Paese di un leader che, finora, non ha ricevuto alcun voto diretto.

Il candidato premier di un partito – è bene ricordarlo – non viene eletto direttamente dal popolo, perché l’Italia rimane una repubblica parlamentare, non presidenziale: il capo del Governo è nominato da una maggioranza parlamentare, non è un presidente eletto direttamente dal popolo; ha quindi un ruolo esecutivo e può cadere, insieme al suo governo, al mancare della fiducia del Parlamento o al venir meno della maggioranza parlamentare stessa. 
Ma è anche vero che è ormai consuetudine, nella cosiddetta ‘Seconda Repubblica’, che alle elezioni ogni coalizione presenti un proprio ‘candidato di punta’, che si impegna a nominare presidente del Consiglio in caso di vittoria.

Questo senza dubbio influenza notevolmente i voti che un partito riceve, e gli italiani non hanno mai votato il Pd con Matteo Renzi candidato premier. Forse l’avrebbero fatto, se ne avessero avuto l’occasione, o forse no.
Rimane il fatto che non possono essere ignorate le condizioni in cui nasce una così importante riforma costituzionale: scritta da un premier incaricato in modo abbastanza singolare, e da un parlamento figlio di una legge elettorale da più parti definita incostituzionale.
La volontà di correre da parte di Renzi, sia nel non aver cercato prima nuove elezioni, sia nell’aver perseguito, con le riforme, la strada della velocizzazione dei processi legislativi e del rafforzamento del ruolo del Governo, è ‘comprensibile’. Ma stride fortemente agli occhi di chi alla Costituzione ci tiene, per lavoro o per storia.

Tra l’opposizione al progetto di riforma costituzionale ci sono infatti ben 56 costituzionalisti provenienti dalla Magistratura e dal mondo accademico – tra cui il più in vista è il giurista Gustavo Zagrebelsky – che hanno firmato un appello contro la riforma.
Ed è particolarmente significativo lo schieramento per il no anche dell’Anpi, l’associazione dei partigiani. Si oppongono anche la destra (salvo Ncd), il M5S e parte della ‘sinistra del Pd’. A favore Ncd e la stragrande maggioranza del Pd.

Quello che fa particolarmente discutere è la riforma del Senato, che trasforma questo ramo del Parlamento in un soggetto consultivo: il nuovo Senato sarà formato da 100 senatori – di cui 5 nominati dal presidente della Repubblica, e 95 tra consiglieri regionali e sindaci – avrà il potere di esprimere proposte di modifica su qualunque legge, ma solo a patto che un terzo dei suoi membri sia favorevole. La Camera, però, potrà respingere tali proposte. E solo nel caso in cui le leggi riguardino l’ordinamento delle regioni, la Camera avrà bisogno della maggioranza assoluta per ignorare le proposte del Senato.

La riforma costituzionale comprende anche la riorganizzazione delle provincie e l’abolizione del Cnel (Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro). Un’altra novità è la possibilità che la Corte Costituzionale si esprima in via preventiva sulla costituzionalità di alcune leggi, come quella elettorale. Inoltre il governo avrà una corsia preferenziale per la discussione dei propri disegni di legge, che dovranno essere discussi entro 70 giorni.
La riforma dovrebbe quindi velocizzare l’iter parlamentare, dare più peso alle regioni e più forza al governo; tutto in risposta allo storico ‘immobilismo’ dei governi italiani.

I 56 costituzionalisti, d’altro canto, nel punto 1 del loro appello scritto affermano che «la Costituzione, e così la sua riforma, sono e debbono essere patrimonio comune il più possibile condiviso, non espressione di un indirizzo di governo e risultato del prevalere contingente di alcune forze politiche su altre. La Costituzione non è una legge qualsiasi, che persegue obiettivi politici contingenti, legittimamente voluti dalla maggioranza del momento, ma esprime le basi comuni della convivenza civile e politica».

I costituzionalisti esprimono dubbi specifici sull’indebolimento del Senato e sulla sua capacità effettiva di rappresentare le esigenze delle regioni. Non mancano di sottolineare alcuni aspetti ritenuti positivi, nonostante questi non per loro ‘salvino’ la riforma: «La restrizione del potere del Governo di adottare decreti legge, e la contestuale previsione di tempi certi per il voto della Camera sui progetti del Governo che ne caratterizzano l’indirizzo politico; la previsione (che peraltro in alcuni di noi suscita perplessità) della possibilità di sottoporre in via preventiva alla Corte costituzionale le leggi elettorali, così che non si rischi di andare a votare (come è successo nel 2008 e nel 2013) sulla base di una legge incostituzionale; la promessa di una nuova legge costituzionale (rinviata peraltro a un indeterminato futuro) che preveda referendum propositivi e di indirizzo e altre forme di consultazione popolare».

Nel complesso, chi si oppone alla riforma della Costituzione la giudica anti-democratica e autoritaria, mentre il governo ritiene che il maggiore potere dato all’esecutivo sia necessario per un Paese più moderno e governabile.

Un altro punto critico è l’immunità che con ogni probabilità verrebbe garantita ai membri del Senato, cosa che di fatto metterebbe a riparo sindaci e alcuni consiglieri comunali da perquisizioni e arresti: qualcosa che sarebbe visto come un ulteriore privilegio della ‘casta’ dei governanti; un privilegio costituzionalmente fondato e necessario, ma che verrebbe esteso a un nuovo gruppo di soggetti, oltre ai parlamentari eletti.

Intanto il premier annuncia una campagna di informazione e sensibilizzazione per il referendum, che andrà ‘spiegato’ agli italiani: «Facciamo sei mesi a testa bassa, anzi a testa alta perché abbiamo tutto il diritto di stare a testa alta con un lavoro costante sul territorio giocando all’attacco e non di rimessa o a catenaccio», ha enunciato Renzi ai parlamentari. «Nei prossimi sei mesi occorre parlare al Paese, farò questo e soltanto questo, rinunciando a ogni tipo di diatriba interna. Nei prossimi sei mesi giochiamo all’attacco e andiamo a raccontare in ogni piazza cosa stiamo facendo».

I sondaggi dicono che maggiore sarà l’affluenza, maggiori saranno le possibilità di vittoria del sì. Il governo ha quindi, questa volta, grande interesse a che si parli del referendum, anche considerando che per i referendum costituzionali non è previsto alcun quorum.

 
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