Sport e doping, intervista ad Alessandro Donati

Da ottobre 2012 il professor Alessandro Donati riceve inviti da tutta Italia per promuovere il suo ultimo libro Lo sport del doping, attraverso il quale racconta oltre trent’anni della sua lotta al doping, portata avanti spesso in modo solitario.

Nato vicino a Roma, Donati si fa conoscere nell’atletica, prima come valido mezzofondista, poi come allenatore della nazionale, realizzando il suo sogno. Oggi è il massimo esponente dell’antidoping nel nostro Paese e lavora come consulente del Ministero degli Interni e della Wada (Agenzia internazionale antidoping).

Di recente il professor Donati ha tenuto due incontri a Vittorio Veneto durante una giornata organizzata e fortemente voluta dalla società Atletica Vittorio Veneto per rafforzare la filosofia, il concetto di gruppo, di correttezza, di lealtà. Filo conduttore di tutta la loro attività.

«Questo successo del libro, questi inviti da tutte le parti, questa attività di discussione, questi convegni, mi fanno pensare che la prima fase è in atto. Io spero che da questa prima fase ne nasca una seconda. Spero che attraverso questo impegno si realizzi una ricettività e una presa di testimone. Che soggetti più giovani di me, più capaci di me a un certo punto vadano avanti», ha dichiarato Donati in un’intervista rilasciata a Epoch Times.

Quella che racconta il professore è una storia di sacrifici e difficoltà in un ‘ambiente drogato’, trascorsa all’insegna della trasparenza e della difesa dei principi più genuini dello sport. Adesso arriva anche grande soddisfazione, per il consenso riscosso, dopo essere stato ignorato per tanti anni.

Qual è stata la motivazione agli inizi della sua lotta al doping?

È quella del periodo (1981) in cui ero allenatore della squadra nazionale del mezzo fondo veloce (atletica leggera): in quella circostanza mi venne chiesto espressamente dal professor Francesco Conconi di individuare gli atleti da trattare con le sue procedure e mi specificò che lui lo faceva per conto della Federazione di atletica.

In quel momento la motivazione è stata quella di ribellarmi a un fatto che sconvolgeva completamente l’idea dell’allenamento. Questa attività per la quale io avevo studiato e avevo anche sognato di svolgere veniva sopraffatta, veniva contaminata.

Quindi rovinava un sogno?

Ma non è tanto quello. In quel momento mi accorgevo che esisteva un altro mondo. Questa cosa nascosta, lugubre, che io venivo a sapere solo perché ero diventato allenatore della squadra nazionale e dovevano mettermi al corrente.

In quel momento mi sono sentito in obbligo di difendere questa parte della comunità sportiva che veniva strumentalizzata, imbrogliata, ignorata.

E ora, dopo trent’anni, anni cosa la spinge ad andare avanti?

A un certo punto ho cominciato a rendermi conto che dietro queste procedure c’era tutto un insieme di interessi di carriere. Mi sono accorto che l’atleta che subentra nell’ambito di una squadra nazionale è nient’altro che il pesciolino da utilizzare da parte di personaggi piuttosto fissi, inamovibili.

Ho capito questa gerarchia, da una parte di adulti corruttori per il proprio tornaconto e dall’altra atleti, che per il solo fatto che hanno talento si trovano o a dover fare una scelta che magari li esclude, oppure ad accettare qualcosa a cui magari loro non ci avrebbero neanche pensato. Poi mi sono accorto che i dirigenti sportivi che manovravano queste cose in realtà godevano della complicità della politica.

Man mano che lo scenario mi si complicava davanti, pur rendendomi conto dell’inadeguatezza che potevo avere rispetto a questo scenario, mi sentivo come uno che aveva iniziato il percorso, anzi come uno che ne aveva compiuto parecchio, e a quel punto non avrebbe avuto senso fermarsi.

Poi mi sono accorto che non era la questione di un Paese, il mio, ma era una questione di una collettività sportiva che a livello internazionale costituiva una sorta di villaggio globale di comportamenti analoghi. Questo l’ho capito attraverso le prime indagini giudiziarie in cui mi accorsi che Conconi, che io in Italia davo come il protagonista di queste manipolazioni commissionate dal Coni, veniva inserito ad alti livelli. Come le commissioni mediche del Cio (Comitato olimpico internazionale) e dell’Unione ciclistica internazionale.

Allora ho capito questo grande gioco di ipocrisia. E poi, con il passare del tempo mi sono posto questa domanda: «ma che c’entrano i bambini con tutte queste corruzioni?» e «come può un sistema di questo genere continuare a proporsi come modello educativo per i bambini?».

Sono un insieme di pensieri che potrebbero essere ridotti a una frase: «ma perché questa gente deve averla vinta?».

Cosa le è costato tutto questo?

Ho ricevuto un’inimicizia crescente dei colleghi dirigenti all’interno della struttura sportiva che poi è diventata odio e tentativo di emarginarmi e di distruggermi.

Ma io queste cose ho sempre cercato di controbatterle, ma mai di piangerci sopra. Non mi metto neanche a sottolineare tutte le cose che posso aver subito. Me le sono portate sulle spalle, ho cercato di difendermi, punto e basta. Le considero come un disonore che rimane sulle spalle di chi me le ha fatte… La pesantezza dell’odio.

E cosa ha ricevuto?

Di contro credo di aver ricevuto tantissimo. Innanzitutto una tranquillità personale, nel senso che ero contento di aver utilizzato tutte le mie forze con tutti i miei limiti. Cercare di fare questa lotta, contento di averla fatta e di aver fatto questa scelta. Poi ho incontrato tante persone per bene che hanno cercato di aiutarmi.

Faccio l’esempio. Don Luigi Ciotti a un certo punto del percorso quando ero veramente in una situazione difficile, perché insieme al dottor Bellotti avevamo lanciato una grande sfida, che era quella di implementare i controlli ematici e avevamo incontrato molti atleti italiani di alto livello con dei valori ematici anomali per l’ormone della crescita prima delle olimpiadi di Sidney.

L’isolamento che scattò nei confronti nostri fu terribile e Don Ciotti mi cercò e mi disse: «guarda quello che tu fai è in linea con quello che cerchiamo di fare noi con Libera, se tu vuoi continuiamo a camminare insieme». Questa è stata una cosa importante. Mi ha dato forza interiore.

Nell’ultimo periodo sembra che la situazione sia in evoluzione…

Si, è una tendenza a crescere. Ogni presentazione è un risultato maggiore, con richieste di aiutare insegnanti a sviluppare progetti di prevenzione in ambiente scolastico, inviti da comitati regionali della Fidal che si dissociano dall’organizzazione centrale. Ho anche la soddisfazione di vedere che è stata superata quella parte terribile e lunghissima, nella quale all’inizio facevo denunce che non venivano neanche capite all’esterno e successivamente in cui erano soffocate. Basti pensare al libro scomparso Campioni senza valore.

E poi c’era la stampa che completamente cercava di ignorare o censurare. Adesso è ben diverso, c’è una stampa più frazionata.

Nei suoi incontri dedica un’attenzione particolare a parlare soprattutto ai giovani…

Considero l’aver a che fare con i giovani come la prosecuzione della mia propensione di allenatore.

Avendo studiato molto la problematica dei traffici della droga con il passato governo Prodi, ho capito che questi giovani servono solamente a costituire quei numeri nei quali per un calcolo di percentuale si sa che si possono riversare tonnellate di robaccia.

La droga, il doping e l’alcol, tutto questo mi sembra inaccettabile e cerco di utilizzare gli strumenti che ho per informare e mettere in guardia.

Quale ritiene sia la chiave per fare questo?

Far capire ai ragazzi la differenza che esiste fra la scelta e una pseudo scelta. Intendendo per pseudo scelta quella che il giovane, guardandosi attorno, si accorge che hanno preso decine, centinaia di suoi coetanei. Li si deve far scattare il dubbio: «ma è una scelta se è identica a quella dei miei coetanei?». Quindi cercare di far capire che quando la scelta è tale e quale per una percentuale molto alta di giovani che sono intorno a lui, c’è qualcosa che non quadra e molto probabilmente è una scelta di altri, alla quale lui si sta adeguando.

Nel suo incontro ha parlato di rispetto delle regole, ma ad esempio nel ciclismo c’è una serie ‘infinita’ di farmaci nella lista del doping e uno potrebbe pagare per aver assunto uno sciroppo per la tosse e pagare troppo cara una disattenzione…

Questo guazzabuglio lo ha creato il sistema sportivo. Queste liste infinite le ha create il sistema sportivo con un fine ben preciso: quello di gettare polvere negli occhi. Di dare l’idea di tenere sotto controllo tutto lo scibile e non è vero.

Mi ricordo un farmacologo di Pavia che è stato anche consulente di Guariniello per alcuni anni. Il professor Gianni Benzi, il quale diceva che le liste sono una cosa inutile, intanto perché i farmaci sono molti di più di quelli messi nelle liste e ce ne sono sempre di nuovi e ci sono gli effetti indiretti molto complicati da studiare.

Fatta questa premessa concludo in una maniera molto più semplice: un passaporto (biologico), [ossia, ndr] un sistema sufficientemente rappresentativo dei parametri che devono prevenire i rischi. Veramente può essere ridotto a una decina di parametri non di più, sensibili ad alcune somministrazioni. Diventa una sorta di sistema di protezione del soggetto. Non si va più a ricercare tutta quella miriade di cose, ma si vanno a vedere gli effetti sull’organismo. Questo è un modo pratico di fare la prevenzione.

Quindi, accanto alla prevenzione con la somministrazione di idee, fatta in ambiente scolastico, fare questa prevenzione pratica, che è quella di assicurare al ragazzo una mappatura. Quindi qualsiasi malintenzionato prima di intervenire ci deve pensare bene. Perché a quel punto l’anomalia emerge dai dati.

Questa cosa la vedo in riferimento a quelli che sono i pericoli principali. Non soffermo la mia attenzione sullo stimolante che si prende per la tosse, queste sono cose insignificanti, che il sistema sportivo mette in atto per fare scena.

Non bisogna dimenticare che molte positività fino a qualche tempo fa si riferivano alla cannabis. È una cosa ipocrita. Magari era un uso fatto durante la settimana che nulla c’entrava con le gare, ma il sistema sportivo in quella maniera arrotondava dei numeri, che sono scarsissimi, perché dall’altro lato cercava di prendere meno atleti positivi possibile. Ma per i propri tornaconti, non per questa idea che è meglio prevenire che reprimere.

In questi anni nella lotta al doping a pagare sono stati quasi sempre gli atleti ma le responsabilità a monte?

Questa domanda proprio a me?! Spererei di essere smentito nel timore di essere l’unico ad aver preso in esame le responsabilità che sono più in alto di quelle dell’atleta.

Ho parlato di dirigenti, di allenatori, di medici o di figure genitoriali sbagliate. Qui parlo di adulti significativi che hanno un ruolo di responsabilità grave. Il sistema sportivo con il suo sistema delle squalifiche ha preso in esame solamente la figura dell’atleta. Io cercavo di fare ben altro.

Per esempio l’indagine su Conconi si è avviata grazie a delle mie segnalazioni. Quelle che sono state le indagini sulla diffusione degli anabolizzanti si sono sviluppate grazie a mie segnalazioni. Il dossier sull’epo uscì fuori nel 93 grazie a mie segnalazioni o lo scandalo del calcio del 1998 eccetera. Io ho sempre mirato all’obbiettivo grande, quello delle responsabilità che stanno a monte. Così come alla complicità tra la dirigenza politica e la dirigenza sportiva.

Come vede la situazione a livello internazionale?

A livello mondiale dominano le multinazionali apparentemente e formalmente legali e poi quelle chiaramente illegali. E molto spesso quelle illegali sono complici di quelle legali. Quindi c’è un’incoerenza e un’inadeguatezza. Come si può pensare che i crimini sono internazionali e le operazioni di polizia giudiziaria sono addirittura su base locale?

Facciamo un esempio: l’Oms ha mai fatto un monitoraggio di quella che è la produzione dell’industria farmaceutica per commisurarla agli studi epidemiologici e quindi alle esigenze di farmaco da parte dei malati, per vedere se il farmaco prodotto è pari, oppure è due, tre, quattro, cinque volte più di quello che serve?

Mancano regole internazionali.

E l’Agenzia internazionale antidoping Wada?

La Wada questo ha tentato di fare. Si è data un codice mondiale e poi ha tentato di dire: «Ho bisogno per fare il mio lavoro che in tutti i Paesi nascano altrettante Wada delle agenzie nazionali indipendenti» e sottolineo «indipendenti».

E non è stata aiutata dal sistema sportivo. E probabilmente [un’altra causa è, ndr] la sudditanza di noi cittadini che non chiediamo una rendicontazione precisa del confronto tra servizi e tasse pagate su base internazionale. Questi organismi governativi internazionali vanno avanti con i contributi dei governi dei Paesi, quindi una quota parte delle tasse serve per l’Oms, per la Wada, per l’Interpol eccetera.

Quindi la Wada funziona…

La Wada è nata per caso. Nel febbraio 2009 alcuni governi trascinati dall’Unione Europea, ma anche con l’ok degli Stati Uniti, si incontrarono con il Cio per cercare una strada e si diede vita alla Wada. Il Cio è un’organizzazione di business che gestisce quantità immense di denaro derivanti da diritti televisivi in una situazione di controllo privatistico.

Il Cio deve rispondere solamente alle regole e al diritto privato della Repubblica Elvetica, vuole stare il più possibile fuori dagli scandali. Uno degli scandali che colpiva sistematicamente il Cio era appunto il doping.

Il Cio ha fatto una mossa abile: ha fatto un passo indietro. Ha creato un organismo e lo ha creato insieme ai governi: co-assunzione di responsabilità. E se la prenderanno con la Wada quando ci saranno gli scandali, non con il Cio.

Nel contempo c’era Dick Pound che aveva perso la corsa per la presidenza del Cio, e divenne presidente della Wada. Pound si è voluto togliere la soddisfazione: mi avete fatto fuori dalla presidenza del Cio e io adesso la Wada ve la faccio funzionare per davvero come un organismo autonomo.

Dopo di che il sistema tende a recuperare lo statu quo. Come? Da una parte i governi, la crisi economica eccetera, e cominciano a diminuire le quote di finanziamento della Wada.

Il Cio la sua quota la dà sempre e ha recuperato un po’ di forza gravitazionale. Se prima la Wada era bilanciata tra due forze gravitazionali: quella della politica e quella del sistema sportivo, ecco che si è riavvicinato. Infatti, nella nuova corsa alla nuova guida della Wada vince il vicepresidente del Cio e perde Edwin Moses.

Il ciclismo è stato lo sport che più di altri è stato al centro dei media per i casi eclatanti di doping, ma ha detto che ha preso la strada giusta.

Il ciclismo ha toccato per primo il fondo. Intendo dire una diffusione pressoché totale, scandali uno dopo l’altro gravissimi, anche storie personali drammatiche, quindi perdita di credibilità. Il ciclismo a un certo punto ha iniziato a rispondere a questi scandali inasprendo e stabilendo delle regole più efficaci. Il controllo soprattutto ematico sta portando a una situazione molto più vicina alla normalità biologica.

Il mio parere sull’americano 42enne che ha vinto la Vuelta ne è la dimostrazione. Ha approfittato furbescamente, perché non se lo filava nessuno in quanto era un atleta di seconda schiera. È chiaro che ha sorpreso tutti. Stia certo che non gli riuscirà il secondo colpo, ha messo tutti in ridicolo.
Molti sottolineano il fatto grottesco che questo 42enne ha vinto la Vuelta. Io cerco di andare al di là e apprezzare gli aspetti positivi, perché nella realtà se ci fosse stato un doping galoppante, il 42enne non avrebbe mai vinto.

Ha detto che il doping interessa il quattro per cento degli sportivi comuni. E tra i professionisti?

Tra i professionisti controllati da chi? Si arriva al paradosso che se andiamo a vedere le statistiche del sistema sportivo le positività tra i professionisti sono sei, sette volte più basse di quelle degli sportivi qualunque, quando i professionisti sono dei soggetti che in tutte le indagini giudiziarie risultano molto più coinvolti con il doping.

C’è qualche sport in cui il fenomeno del doping è meno diffuso?

Negli sport in cui c’è un ruolo maggiore delle capacità coordinative. Quindi dell’equilibrio, della capacità di fantasia motoria, coordinazione dei movimenti. Queste sono capacità sotto il dominio del sistema nervoso e non rispondono ai farmaci.

Pensiamo alla scherma o ai tuffi, l’influenza del doping è più limitata. Ho fatto l’esempio della Vezzali, vince da una vita. È chiarissimo che basa quelle vittorie su una capacità coordinativa. Poi ci sono alcuni sport di squadra. Ma bisogna distinguere tra sport di squadra che si svolgono su spazio piccolo o su spazio ampio, come il calcio…

Solo ora dopo tanti anni, finalmente inizia a raccogliere i frutti del suo lavoro. A cosa è dovuta questa svolta?

È stata importante la decisione di scrivere questo libro. Io non lo volevo neanche scrivere e quindi il merito non è mio, è di quegli amici che hanno insistito affinchè io lo scrivessi. Pensavo che le persone non avessero voglia di stare a guardare questi lati oscuri che volessero prendere le cose così come sono, vivere lo sport come evasione e che nessuno si volesse guastare l’animo pensando ai problemi. Invece mi sono accorto che c’è comunque una fetta importante di persone che è proprio incavolata sul fatto di questo inquinamento dello sport e si preoccupa per i bambini.


Il professor Alessandro Donati è Maestro dello sport e unico consulente italiano dell’Agenzia internazionale antidoping (Wada). È stato allenatore delle squadre nazionali di velocità e mezzofondo dell’atletica leggera e dirigente responsabile della ricerca e sperimentazione del Coni.

 
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