La Colombia nel caos

Di Riccardo Seghizzi

La Colombia è nel caos. Dalla riforma fiscale, passando per il presidente Ivan Duque, la pandemia, le proteste con centinaia di feriti e morti e le dure repressioni. Da un subbuglio generale, al caos più profondo, con il duplice spettro della guerra civile e della rivoluzione. 

Dal 28 aprile scorso in Colombia si sta vivendo una situazione davvero difficile e complessa nella sua risoluzione. A rendere così ardua la ricerca della parola fine, o quantomeno una tregua, sono le molte concause e dinamiche interne al Paese latino-americano, da anni in difficoltà.

Ripercorriamo allora tutte le tappe di questa situazione esplosiva, nella maniera più esaustiva e semplice possibile.

Il contesto di partenza e le riforme di Ivan Duque

Le immagini che ci giungono dalla Colombia, di vera e propria guerriglia urbana e non più solo di manifestazioni sindacali e studentesche, trovano così tanta rabbia e sfinimento ben più indietro nel tempo.

La Colombia, come tanti Paesi dell’America del Sud, è ancora alle prese con forti problemi economici e sanitari, con tanta povertà e problemi annessi che spaziano dalla delinquenza alla corruzione.
Ad aggravare uno scenario già cupo è arrivata la pandemia di Covid-19. Il virus ha causato almeno 75 mila decessi ed oltre 3 milioni di contagi ufficiali. Se si considera il numero totale della popolazione colombiana, ovvero circa 50 milioni, il rapporto è altissimo.
La capitale, Bogotà, ha sfondato quota 1 milione di contagi.
La terza ondata pandemica ha di fatto messo in ginocchio ed al collasso le strutture sanitarie, e le proteste iniziate ormai più di un mese fa hanno incrementato ancora di più i numeri già drammatici.

Sempre legandosi al Coronavirus, ed osservando alcuni dati, si capisce come già ben prima delle proteste la situazione fosse sull’orlo del baratro. Da inizio pandemia la popolazione priva di lavoro è aumentata di circa 1 milione, ed anche il tasso di povertà è salito vertiginosamente fino al 42%.
Le attività che hanno dovuto chiudere sono state circa 500 mila e, aspetto non secondario ai fini delle proteste, i lockdown imposti dal governo colombiano sono stati molto duri, aumentando un malcontento nelle persone già molto alto.

Per quanto riguarda invece il presidente Ivan Duque, il gradimento del popolo nei suoi confronti era già ai minimi storici. Sono nella mente di tanti colombiani le proteste avvenute nel 2019 proprio contro Duque, con scioperi per svariate settimane, e l’uccisione di Dilan Cruz, adolescente colpito da un proiettile sparato dalla polizia. Anche l’abbandono degli Accordi di pace, le rivelazioni sui falsos positivos (vittime di esecuzioni extragiudiziali durante la presidenza Uriba), l’aumento delle persecuzioni contro i leader sociali ed i difensori dei diritti umani e le polemiche per l’acquisto di 24 aerei da guerra per una spesa di circa 14 miliardi di dollari, sono tutti tasselli che hanno impennato il malumore popolare, già in crisi e definitivamente abbattuto con il virus.

In questo difficilissimo contesto, il presidente Duque ha annunciato un pacchetto di riforme neoliberiste, in linea con le richieste del Fondo monetario internazionale (Fmi).
Il 2020 per l’economia colombiana ha fatto registrare una flessione del Pil del 6,6% e il deficit ha raggiunto l’8%. L’intervento rimuoveva inoltre differenti esenzioni, anche sui beni di prima necessita come quelli alimentari, sul corrispettivo della nostra Iva e abbassava il tetto di stipendio per cui è necessario pagare l’imposta di reddito (in Colombia lo stipendio minimo è di 234 dollari mensili), andando a colpire soprattutto il ceto medio.
Come conseguenza di tali manovre economiche, le entrate derivanti sarebbero poi state riutilizzate a livello sociale, in particolare per la sanità.
Infine, in parallelo a questa proposta economica, anche un ulteriore legge era stata abbozzata da Duque, che tutelava fiscalmente multinazionali e grandi aziende del Paese.

Le proteste e le violenze

Così, con questo pacchetto di riforme proposte, Duque ha scoperchiato lui stesso il ‘vaso di pandora’ della Colombia.

A partire dal 28 aprile scorso, la popolazione colombiana è scesa in piazza. Insostenibile, per un popolo già in ginocchio, un ulteriore sacrificio nel breve periodo per la buona riuscita delle riforme Duque. Inoltre, come detto nelle righe precedenti, il tutto esacerbato dalla gestione della pandemia da parte del governo.

Le manifestazioni e proteste sono così tramutate in uno sciopero generale ad oltranza, paro nacional, proclamato da sindacati, associazioni studentesche, collettivi urbani e rurali.
La situazione da esplosiva è effettivamente esplosa il 1° maggio in occasione della Festa dei Lavoratori.

Da qui in poi la situazione in Colombia è definitivamente caduta nel caos e senza controllo. Gli scontri si sono susseguiti per giorni, con un bilancio drammatico ed una situazione allarmante, che fotografa una Colombia in piena guerriglia urbana.

La risposta del governo, spiazzato dal paro nacional così di larga portata, è stata mandare i militari e le forze dell’ordine a ristabilire una tregua e calma tutt’ora non raggiunta.
La repressione è stata violenta ed il bollettino fin qui recita 59 morti ed almeno 2.300 feriti. Questi numeri potrebbero essere anche sottostimati.

Le maggiori scene di violenza si sono registrate nelle città più grandi del Paese, come Cali, Medellín e Bogotà. Oltre all’intervento irruento delle forze dell’ordine, anche i manifestanti non si sono trattenuti, saccheggiando negozi, banche, incendiando autobus e stazioni di polizia.
Barricate sono state create lungo alcune autostrade del paese e in alcuni quartieri, sempre per mano dei manifestati, causando enormi problemi per il rifornimento di cibo, medicinali, carburante e trasporti di ogni genere.

Dall’altro lato, la polizia, i militari e l’Esmad (la squadra speciale anti-disturbi), hanno risposto con lacrimogeni, manganelli e violenze inaudite. I video ed immagini social mostrano scene disastrose, con poliziotti che picchiano selvaggiamente i manifestanti inermi, agenti che sparano sulla folla, retate in case private, speronamenti in moto da parte della polizia e violente caccia all’uomo. Decine sono le persone prelevate di peso, alcune scomparse, altre messe in carcere. In più, ci sarebbero stati casi di stupri subiti dai manifestanti. Aspetto, quello degli stupri, denunciato a gran voce da molteplici persone e media. 

Emilia Márquez, co-direttice della ong Temblore, che si occupa di segnalare gli abusi delle forze di sicurezza, ha dichiarato a Vice che la violenza sessuale, e la minaccia di vioenza sessuale, sono stati strumenti usati dalla polizia contro le donne e le ragazze che hanno partecipato alle manifestazioni. 

Negli scontri, pare che la maggior responsabilità delle violenze possa essere attribuita all’Esmad, ovvero la squadra antisommossa Escuadrón Móvil Antidisturbios, dotati di armi non letali, come bombolette di lacrimogeni e fucili dai proiettili in gomma. La ong Human Rights Watch, aveva gia accusato gli agenti dell’Esmad di aver compiuto molteplici atti di violenza durante svariate proteste a cavallo tra il 2019 ed il 2020.

Le autorità della Colombia, fino ad oggi, hanno aperto 157 indagini sugli agenti per cattiva condotta ed ulteriori 11 invece per omicidio. Numeri decisamente bassi rispetto ciò che sta accadendo. Sempre le autorità, si sono anche difese etichettando molte notizie come ‘fake news’ e sottolineando che nelle ultime settimane di scontri sono morti 2 poliziotti e 35 sono stati feriti.

Infine, come ultimo tassello in uno scenario surreale, il ministro della Difesa colombiano aveva cercato di additare la colpa delle violenze a presunti elementi terroristici infiltrati nelle manifestazioni e tra i giovani. Presenza, quella terroristica, che non ha ancora trovato riscontro.

Un dialogo fallito e una fine che non si vede 

Nel corso di questo mese, Duque ha dovuto scontrarsi con la realtà di un Paese in rivolta, ed ha annunciato il ritiro della riforma, che sarà rivista. Il ministro delle Finanze, Alverto Carraquilla si è dimesso.

Ovviamente le proteste sono proseguite, ed è iniziato un dialogo molto faticoso ed a rilento tra il governo ed i manifestati.
Qualche settimana fa, Duque si è rifiutato di fare concessioni fino a che i manifestati non rimuoveranno le barricate ed ha annunciato la mobilitazione di 7.000 soldati per sgomberare quelle già presenti nelle autostrade.

La controparte, ovvero i manifestati, hanno svariate richieste: l’introduzione di un reddito universale per risanare le disuguaglianze, la diminuzione delle tasse universitarie incentivando così lo studio nei giovani colombiani, lo smantellamento della polizia antisommossa.

Nonostante ciò, la situazione non sembra vedere né una fine, né tantomeno un proseguimento del dialogo. Infatti, il Comitato nazionale di sciopero (Cnp) ha annunciato qualche giorno fa la decisione di sospendere le trattative con il governo, ipotizzando anche una rottura definitiva del dialogo. La motivazione sarebbe che il presidente Ivàn Duque avrebbe rifiutato di accordarsi per quanto riguarda la sicurezza per le manifestazioni popolari.

Molte le risposte ed appelli internazionali, dall’Onu all’Europa, passando per gli Stati Uniti, ma le violenze e le proteste in Colombia non sembrano aver recepito.
Il controllo è ancora perduto e la situazione è ancora nel caos dopo più di un mese.
Una soluzione, politica o diplomatica che sia, non si vede all’orizzonte mentre la Colombia è in ginocchio.
Il consenso al presidente Duque è in picchiata, la popolazione ribolle, i diritti umani sono violati, l’economia è in crisi profonda, e le proteste vanno ben al di là delle riforma poi levata.

 
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