Nell’autunno del 1786, a trentasette anni, Johann Wolfgang von Goethe lasciò la Germania e con lo pseudonimo di Filippo Miller attraversò le Alpi per iniziare la sua odissea in Italia, durata due anni. Descrisse i suoi viaggi in lettere e diari, ricordando ai lettori l’importanza di vivere la bellezza in prima persona.
LA PARTENZA

Nato a Francoforte sul Meno nel 1749 da una rispettabile ma modesta famiglia dell’alta borghesia, Goethe iniziò la propria istruzione fin da giovanissimo, studiando grammatica, lingue moderne e antiche e altre materie comuni all’epoca. Prediligeva il latino e il greco, ma si interessava soprattutto a testi religiosi e mitologici, come la Torah e le Metamorfosi del poeta romano Ovidio. Nell’autobiografia Goethe descrisse la sua «singolare abitudine di imparare sempre a memoria gli inizi dei libri», che gli permise di conoscere a fondo il canone occidentale.
Dal 1765 al 1768, Goethe studiò legge all’Università di Lipsia. Non gli piaceva imparare i codici giuridici e spesso saltava le lezioni per seguire le lezioni di poetica. Nonostante avesse alla fine aperto un piccolo studio legale a Francoforte, l’inesperienza gli impedì di avere successo. In seguito a disaccordi con il padre e a una malattia che lo portò quasi in fin di vita, Goethe si dedicò completamente alla letteratura: sentiva che questa era la sua vocazione.
A venticinque anni pubblicò I dolori del giovane Werther, un romanzo epistolare sul travaglio di un giovane per un amore non corrisposto, che divenne rapidamente uno dei libri più letti in Europa. La crescente popolarità lo portò dalla natia Francoforte a Weimar, vivace centro culturale, e qui entrò in contatto con il geografo e botanico Alexander von Humboldt, col filosofo e traduttore Friedrich Schlegel e altri luminari dell’epoca.
Karl August, duca di Weimar, riconobbe subito la genialità di Goethe e, anche grazie al successo del suo romanzo, ottenne dall’imperatore Giuseppe II il titolo nobiliare, entrando ufficialmente a far parte dell’élite tedesca, status secondo solo a quello di reali.
Il duca inoltre gli affidò l’incarico di consigliere privato. Il giovane Goethe supervisionò la riapertura delle miniere d’argento, guidò una serie di riforme all’Università di Jena, fece parte di un comitato di guerra e sovrintese persino alla progettazione del giardino botanico di Weimar. Sebbene questa posizione amministrativa gli avesse dato dei poteri nel plasmare lo sviluppo di Weimar come culla del classicismo del XVIII secolo, ostacolò anche la sua attività artistica. Goethe era un creativo e gli obblighi politici sottraevano tempo alla lettura, alla scrittura e alla contemplazione, e la nuova situazione lo rendeva sempre più insoddisfatto.
Il tumulto interiore dell’artista rispecchiava i tempi: alla fine del ‘700, la fiducia che l’Illuminismo riponeva nella ragione come facoltà sufficiente per conoscere e vivere bene cominciò a scemare. Goethe era sempre più disilluso da una visione che privilegiava la ricerca scientifica isolata, e dall’indagine meramente intellettuale, rispetto alla comunione intima ed emotiva con il mondo. Dopo aver convinto il duca a retribuirgli un periodo di congedo, partì per l’Italia – ma forse “fuggì”, all’insaputa di tutti.
VIAGGIO IN ITALIA

Il viaggio di Goethe iniziò nel settembre 1786. La prima tappa fu Innsbruck, nell’odierna Austria, attraverso il Brennero ed entrò in Italia, che all’epoca era divisa in diversi regni. Soggiornò sul Lago di Garda, a Verona, Vicenza, Venezia, Bologna, Roma e Napoli arrivando infine in Sicilia. Sebbene avesse sentito parlare di queste città storiche e delle loro innumerevoli opere artistiche e archeologiche, sapeva che la sua conoscenza si limitava a dei «nomi vuoti». Desiderava fare esperienze dirette, si dichiarò quindi «nemico mortale delle semplici parole» e giurò di intraprendere il turismo come via per la conoscenza di sé. Scrisse che il «viaggio era un modo per scoprire me stesso negli oggetti che vedo».
Durante i suoi spostamenti scrisse lettere agli amici e riassunse i momenti più significativi su un diario, che alla fine diventarono due volumi, Viaggio in Italia, pubblicati nel 1816 e nel 1817, che testimoniano la ricerca di Goethe per scoprire se stesso.
INCONTRO CON IL SUBLIME

Nel marzo del 1787, Goethe raggiunse Paestum, un luogo tranquillo e senza pretese, un tempo colonia greca chiamata Poseidonia. Il sito ospita alcuni templi antichi tra i meglio conservati al mondo, tre strutture colossali del VI e V secolo a.C. si ergono ancora su un terreno pianeggiante e paludoso, circondato da fiori selvatici e dal silenzio del vicino litorale campano.

All’inizio Goethe ne rimase sconcertato: «Il paesaggio diventava sempre più piatto e desolato; la scarsità di edifici indicava una coltivazione parsimoniosa», ma poi cominciò a riconoscere «i resti di templi e altri monumenti di una città un tempo splendida», che erano troppo grandiosi per essere ignorati. Il contrasto con la vegetazione circostante era netto. Seminascosto dalle erbacce selvatiche, il tempio di Poseidone, con i suoi goffi capitelli dorici, le colonne irregolari e la pesante trabeazione triangolare, alto dieci metri, costituiva uno spettacolo inquietante: Goethe si sentì stupito e confuso. Non sapeva cosa pensare delle forme e delle strutture di quel «mondo non pittoresco e perfettamente strano». I suoi occhi, e attraverso di essi il suo «intero essere interiore», erano abituati allo stile architettonico più leggero della Germania del XVIII secolo, che cercava di incantare con linee sottili e materiali raffinati. Il marmo pesante e grezzo di Paestum appariva estraneo e sconcertante «per non dire spaventoso».
La contemplazione silenziosa permise però a Goethe di trasformare l’iniziale disagio in un sereno apprezzamento, il sito divenne gradualmente più piacevole: «in meno di un’ora mi riconciliai con esso». Cominciò ad ammirare questo stile sconosciuto come segno di un popolo la cui sensibilità estetica differiva nettamente dalla sua, ma che tuttavia condivideva l’impegno per il bello e desiderava realizzare opere che lo celebrassero.
Il filosofo irlandese Edmund Burke (1729-1797) definì il sublime come un misto di timore e piacere, una cosa molto più potente del semplice bello. Per Goethe, i templi di Paestum erano strani e spaventosi, ma anche stupefacenti e attraenti: erano sublimi.

In quei giorni Goethe viaggiava con Christoph Heinrich Kniep (1755-1825), un pittore specializzato in architettura. Kniep aveva fatto degli schizzi, offrendoli all’amico come «segni da tenere per la memoria» e da conservare per quando avrebbe ricordato il suo viaggio. Osservando i templi colossali, un tempo ornati da motivi colorati ma ormai scuriti e rovinati dal tempo, i due amici si resero conto che l’esperienza della bellezza supera sempre le descrizioni: «È solo girando intorno a esse e attraversandole che queste opere trasmettono la loro vera natura: si percepisce, per non dire che è infuso in loro il sentimento stesso che ispirava l’architetto».
Come Goethe si aspettava, questo incontro con le antichità approfondì la sua sensibilità estetica, cominciò ad apprezzare l’elemento primordiale e grezzo come essenziale per il bello. Le rovine di Paestum incarnavano grandezza e semplicità: erano austere, ma anche magnifiche, non erano solo simboli di un’epoca e di un popolo perduti. Erano doni del passato che offrivano a Goethe e ai viaggiatori come lui la possibilità di entrare in contatto con quello che lui chiamava lo «spirito dell’epoca», le caratteristiche estetiche distinte di un’epoca che esprimevano l’essenza universale della bellezza. Nel conoscere questo spirito, Goethe stava scoprendo se stesso.

RITORNO A CASA
«Siamo tutti pellegrini, noi che andiamo alla ricerca dell’Italia», scrisse Goethe nel 1790, due anni dopo il suo ritorno in Germania e qui l’ozio rilassante dei viaggi lasciò il posto al ritmo frenetico della guerra. Nel 1792 combatté nella battaglia di Valmy contro le forze rivoluzionarie francesi. Poco dopo fu al fianco del duca August durante l’assedio di Magonza, nella riconquista della città strategica dalla Francia. Dopo due anni di guerra, Goethe si dedicò nuovamente alla letteratura, come faceva da giovane. Scrisse poesie, opere teatrali e prosa fino alla sua morte, avvenuta nel 1832, ma rifletteva spesso sul viaggio in Italia, da cui la decisione di rivedere e pubblicare i suoi appunti privati.
Il poeta britannico-americano W.H. Auden, nella traduzione di Viaggio in Italia, ha osservato che «alcuni viaggi – e quello di Goethe era uno di questi – sono vere e proprie ricerche. Viaggio in Italia non è solo una descrizione di luoghi, persone e cose, ma anche un documento psicologico di importanza fondamentale».
Viaggiando attraverso i paesaggi e visitando i monumenti, Goethe riscoprì una parte di sé che pensava di aver perso: quello spirito creativo che si illumina maggiormente quando è acceso dalla bellezza del mondo.