Il tanto atteso incontro fra Stati Uniti e Cina, tenutosi in Corea del Sud la scorsa settimana, si è concluso con una tregua che ha portato a una riduzione dei dazi e a una sospensione dell’escalation della guerra commerciale.
Pechino ha ripreso, dopo mesi, l’acquisto di soia americana. Le esportazioni di terre rare stanno per ripartire verso l’America e i dazi reciproci sono stati congelati. Pechino si è inoltre impegnata a limitare il contrabbando di precursori del fentanyl in cambio di una riduzione del 10 per cento dei dazi americani sui prodotti cinesi.
Sia Trump che Xi hanno definito l’incontro estremamente positivo ma, dietro i toni trionfanti di rito, resta l’interrogativo sulla durata di questa tregua: se il Partito comunista cinese rispetterà davvero gli impegni presi. Un interrogativo retorico, peraltro: il regime cinese non rispetta praticamente mai gli impegni che prende.
Senza considerare che dalla tregua commerciale restano fuori tutte le altre questioni di massima importanza: il futuro di Taiwan, i diritti umani, l’espansionismo militare cinese nell’Indo-Pacifico, le distorsioni strutturali della politica industriale cinese, TikTok e il settore dei semiconduttori.
Pochi giorni dopo l’accordo, ad esempio, l’ambasciatore cinese Xie Feng ha ribadito in un videointervento che Taiwan e i diritti umani rappresentano per Pechino delle «linee rosse». Washington ha immediatamente ribadito a muso duro che il regime cinese deve appunto «evitare di oltrepassarle» quelle linee rosse. L’ennesimo avvertimento alla dittatura continentale: un attacco a Taiwan le costerebbe un prezzo molto caro.
Tornando alla guerra commerciale, le promesse restano vaghe. L’intesa sarà soggetta a revisione annuale, così come l’allentamento delle restrizioni sulle terre rare e la sospensione americana dei dazi sui cargo legati alla Cina. E ogni turbolenza geopolitica — dai rapporti Russia‑Cina alle tensioni nello Stretto di Taiwan — potrebbe modificare la situazione. L’accordo, insomma, vale solo come tregua momentanea.
D’altra parte, la distanza tra le promesse del regime cinese e la realtà è da sempre un problema. Per entrare nell’Organizzazione mondiale del commercio, nel 2001, la dittatura comunista cinese aveva promesso di aprire i mercati, abbattere le barriere commerciali e tutelare la proprietà intellettuale. Ma il Partito comunista cinese non ha mantenuto praticamente nessuno di quegli impegni.
Le imprese cinesi, tenute in vita da fiumi di denaro pubblico, continuano a fare dumping: a inondare i mercati internazionali di prodotti a prezzi ridicolmente bassi distruggendo la concorrenza occidentale. In parallelo, lo spionaggio industriale, il furto e l’estorsione della proprietà intellettuale occidentali restano le basi del progresso tecnologico cinese.
Già durante la prima amministrazione Trump, il regime cinese ha violato l’accordo commerciale con gli Usa denominato “Fase Uno”, attribuendo il fallimento al Covid (epidemia che, peraltro, è stata causata proprio dal regime cinese). Poi, con l’amministrazione Biden, era stata raggiunta un’intesa analoga sul fentanyl, la droga infinitamente più letale dell’eroina i cui precursori sono esportati negli Stati Uniti con la complicità (nel migliore dei casi) del regime cinese. Ma anche l’accordo sul fentanyl non è mai stato rispettato dal Pcc.
Decenni di manipolazioni di mercato, sussidi mirati e investimenti strategici hanno permesso alla Cina di dominare nel settore delle terre rare, condizionando il resto del mondo. Ma ora, per la dittatura comunista cinese la festa è finita. Le recenti restrizioni alle esportazioni hanno innescato una reazione a catena. «Qui non è una questione Stati Uniti contro Cina, ma di Cina contro il mondo», ha dichiarato il ministro del Tesoro statunitense Scott Bessent in un’intervista televisiva, aggiungendo che la Cina «si è dimostrata un partner inaffidabile in molti ambiti».
Ma rispetto al passato, questa volta la differenza è stata che Xi Jinping si è seduto al tavolo dei negoziati con Donald Trump nel pieno di una crisi economica che appare da anni senza rimedio. Il settore immobiliare, un tempo pilastro dell’economia cinese, è in caduta libera, gli ordini esteri calano, il settore dei servizi va sempre peggio e la disoccupazione giovanile è ormai un problema endemico che da anni distrugge il futuro di milioni di giovani cinesi. Schiacciato da questa pressione il Partito comunista cinese ormai può solo cercare di guadagnare tempo: Xi non ha avuto altra scelta che far buon viso a cattivo gioco e ingoiare un rospo, nella trattativa con Trump.
Ed è chiaro come entrambi vogliano ridurre la reciproca dipendenza. Pechino, nel nuovo piano quinquennale, punta a un’economia più autosufficiente, sia nella tecnologia sia nei consumi, e il regime promette di stimolare la domanda interna e potenziare la produzione, creando al contempo uno «scudo di sicurezza nazionale». In che modo? Sempre a colpi di piani quinquennali, mantenendo intatto il (fallimentare) sistema della pianificazione centralizzata dell’economia concepito da Karl Marx. Ma ora che l’aiuto occidentale è finito, il regime comunista cinese si avvia sull’orlo dello stesso baratro da cui Deng Xiaoping lo aveva (temporaneamente) salvato nel 1980, “aprendo” in parte al libero mercato. Il comunismo cinese è semplicemente destinato a fallire, come tutti i regimi comunisti hanno già fallito nella Storia.
Gli Stati Uniti invece, stanno tornando alle logiche di prudenza e efficienza che caratterizzano il libero mercato, a partire dalla drastica riduzione della dipendenza dalla “fabbrica del mondo” cinese e, in parallelo, riducendo al massimo della velocità possibile la dipendenza dalle esportazioni di terre rare cinesi.
Prima di incontrare Xi, infatti, Trump aveva già stretto accordi con Australia, Giappone e quattro Paesi del Sud‑Est asiatico su terre rare e materie prime strategiche. Il 6 novembre, inoltre, il presidente americano ha ricevuto a Washington i capi di Stato e di governo di cinque nazioni dell’Asia centrale ricche di materie prime, sottolineando l’intenzione di rafforzare i legami «più che mai».
«Nei prossimi due anni ci muoveremo a velocità supersonica per liberarci dalla spada di Damocle che la Cina tiene sulla nostra testa, anzi: su tutto il mondo» ha poi confermato il ministro del Tesoro americano Scott Bessent.
Sul fronte dell’intelligenza artificiale, Trump ha escluso la vendita di chip ultima generazione di Nvidia alla Cina, mentre Pechino ha vietato i semiconduttori stranieri nei data center. Intanto prosegue l’indagine americana sulla violazione dell’accordo Fase Uno, che potrebbe portare a nuovi provvedimenti ritorsivi contro il regime cinese.
Da anni si parla del cosiddetto “disaccoppiamento” fra le economie di Stati Uniti/Occidente e Cina. Scott Bessent ora definisce la strategia americana come un processo di “riduzione del rischio” ma non di vera “separazione”. Ma per diversi analisti sono parole di circostanza, dal valore più che altro “diplomatico”: di fatto, l’economia cinese è inevitabilmente destinata a ritrovarsi sempre più isolata dall’Occidente. Questa prudenza e lentezza sono dovute semplicemente al fatto che questo disaccoppiamento è molto costoso, per tutti, per cui conviene realizzarlo gradualmente e senza troppi traumi.
Per il politologo Davy J. Wong, il passaggio a cui stiamo oggi assistendo segna la fine dell’epoca dell’era della dipendenza reciproca e del mutuo vantaggio: d’ora in poi, osserva l’esperto, «sicurezza e autonomia saranno la nuova normalità». In un simile contesto, ogni cooperazione risulterà per forza di cose effimera. Quando si è partner commerciali, tutto risulta più semplice; ma ora, il rapporto Cina-Occidente è mutato da alleanza in competizione. E non in una competizione normale ma in una lotta per la sopravvivenza. Una lotta che il regime comunista cinese è destinato – ormai è sempre più evidente – a perdere.




