Da anni la Cina comunista sfrutta le organizzazioni sussidiarie delle Nazioni Unite — come il Consiglio per i diritti umani (Unhcr) e l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura (Unesco) — per perseguire i propri obiettivi strategici, conducendo una costante guerra di disinformazione e influenza. L’obiettivo di queste operazioni è schermare Pechino e i suoi alleati dal controllo internazionale in materia di diritti umani, distogliendo l’attenzione dalle loro violazioni, indebolendo gli standard universali di riferimento e imponendo una visione di governo centrata sullo Stato, presentata come garanzia dei diritti fondamentali a livello mondiale.
Le autorità del Partito comunista cinese si servono spesso di incentivi economici — come i progetti della cosiddetta “Nuova via della seta” — oltre che di pressioni diplomatiche e campagne di propaganda, per spingere altri Paesi ad allinearsi alle posizioni di Pechino in seno alle Nazioni Unite.
Il compito del Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani è promuovere e tutelare i diritti umani nel mondo, indagare sulle violazioni, vigilare sull’osservanza del diritto internazionale e sottoporre periodicamente gli Stati membri dell’Onu a una revisione tra pari dei rispettivi bilanci in materia di diritti umani. Istituito nel 2006 in sostituzione della vecchia Commissione per i diritti umani (attiva dal 1946), il nuovo Consiglio nasceva con l’intento di ridurre la politicizzazione che aveva minato la credibilità dell’organismo precedente, in cui figuravano spesso Paesi noti per essere tra i peggiori violatori dei diritti fondamentali.
Il Consiglio conta 47 membri eletti dall’Assemblea generale dell’Onu per un mandato di tre anni. La Cina ne fa parte ininterrottamente dal 2006, rieletta più volte nonostante le pesanti accuse mosse da Amnesty International, Human Rights Watch, Freedom House e numerose altre organizzazioni indipendenti, che da anni denunciano una politica di genocidio culturale nei confronti di tibetani, uiguri, praticanti del Falun Gong e altre minoranze etniche e religiose. Il solo fatto che Pechino sieda in tale organismo mostra l’efficacia della sua rete d’influenza tra gli Stati membri delle Nazioni Unite.
Secondo vari studi accademici, gli obiettivi del Pcc all’interno dell’Onu sono chiari: costruire un sistema che metta al riparo la Cina da ogni critica, in cui la sovranità statale prevalga sui diritti individuali, l’ordine internazionale riduca il peso delle democrazie liberali e la condotta dei governi in materia di diritti umani venga sottratta a un serio esame. Il regime cinese utilizza il Consiglio per diffondere un modello di diritti umani di natura statalista, che antepone lo “sviluppo” e la “non ingerenza” ai diritti civili e politici dell’individuo; una visione, in sostanza, coerente con la dottrina marxista che eleva lo Stato, ovvero il “bene comune”, al di sopra della persona.
L’obiettivo di lungo periodo del Pcc è convincere la maggioranza delle nazioni a accettare questa visione distorta, in sostituzione dei principi universalmente riconosciuti. Un esempio emblematico è la Risoluzione 41/19, approvata nel luglio 2019 con il titolo “Il contributo dello sviluppo al godimento di tutti i diritti umani”. Il testo, promosso e sostenuto da Pechino, descrive la crescita economica e le iniziative statali come elementi centrali per la realizzazione dei diritti umani, sostituendo i tradizionali meccanismi di responsabilità — come indagini o sanzioni per le violazioni — con vaghi richiami a “cooperazione reciprocamente vantaggiosa” e “dialogo” tra Stati.
In questa prospettiva, l’enfasi è posta sugli obiettivi collettivi anziché sulle libertà individuali, che costituiscono il cuore dell’idea occidentale di diritti umani. L’Occidente, infatti, dà rilievo all’autonomia della persona e alla tutela dalle ingerenze del potere politico, principi completamente ribaltati nel modello proposto dal regime cinese.
Pechino agisce inoltre in modo mirato all’interno del gruppo dei cosiddetti “Paesi in via di sviluppo affini”, con l’intento di indebolire o bloccare le risoluzioni che mirano a denunciarne le violazioni, in particolare le persecuzioni ai danni degli uiguri nello Xinjiang, o Turkestan orientale.
Nell’ottobre 2022 Amnesty International denunciava che una proposta di indagine sulle violazioni del Pcc nello Xinjiang fosse stata respinta, sottolineando come i “legami politici ed economici” tra vari Stati membri avessero influenzato l’esito della votazione. Pechino, secondo numerosi osservatori, avrebbe fatto pressioni su diversi Paesi africani e asiatici, offrendo in cambio incentivi economici nell’ambito della Nuova via della seta. Non a caso, pochi mesi prima — nel gennaio 2022 — la Cina e l’Eritrea avevano siglato una partnership strategica legata proprio a questo piano d’infrastrutture.
Malgrado le prove fornite da molte organizzazioni dei diritti umani, che stimavano in oltre un milione i detenuti nei campi di internamento dello Xinjiang, la bocciatura di quella risoluzione ha rappresentato una sconfitta morale e la dimostrazione della crescente inefficacia del Consiglio, ormai condizionato dall’influenza del regime cinese.
Nel suo sforzo continuo di imporre la propria visione statalista dei diritti umani, lo scorso 6 ottobre Pechino ha presentato una nuova bozza di risoluzione alla 60esima sessione dell’Unhcr, approvata senza voto. Secondo la stampa di regime cinese, il testo era incentrato sulla «promozione e tutela dei diritti economici, sociali e culturali nel contesto della lotta alle disuguaglianze».
L’ambasciatore Chen Xu, rappresentante permanente della Cina presso l’Ufficio delle Nazioni Unite di Ginevra, ha invitato a «rafforzare il multilateralismo e la cooperazione internazionale» e a «incrementare gli investimenti nei diritti economici, sociali e culturali»; formule generiche che ignorano completamente diritti fondamentali quali la libertà di parola, di religione e di associazione, notoriamente incompatibili con la struttura autoritaria del Partito comunista cinese.
Il regime cinese continua nella sua opera di svuotamento dall’interno del Consiglio per i diritti umani, impedendogli di adempiere al proprio mandato originario: la promozione universale dei diritti fondamentali. Attraverso un’azione combinata di persuasione, corruzione e coercizione, Pechino dissuade qualunque tentativo di indagine sulle proprie violazioni, mentre diffonde un modello di “diritti umani” subordinato agli interessi dello Stato, legittimando di fatto la persecuzione arbitraria dei cittadini.
Non sorprende dunque che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump abbia firmato, nel febbraio di quest’anno, l’Ordine esecutivo 14199, intitolato “Ritiro degli Stati Uniti e cessazione dei finanziamenti a determinate organizzazioni delle Nazioni Unite e revisione del sostegno americano a tutte le organizzazioni internazionali”. Nel testo si afferma: «il Consiglio per i diritti umani ha protetto i violatori di tali diritti, consentendo loro di servirsi dell’organizzazione per sottrarsi al controllo internazionale». L’esatta descrizione di quello che il regime comunista cinese fa da anni. Un provvedimento, questo, che colpisce al cuore il più ricorrente e sistematico violatore dei diritti umani del nostro tempo: la Cina comunista.
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