Il tasso di disoccupazione giovanile in Cina ha raggiunto il record in agosto: quasi il 20% dei giovani non studenti risulta privo di lavoro. L’incremento della disoccupazione tra i giovani ha contribuito a far salire di 0,1 punti percentuali il tasso nazionale di disoccupazione urbana che, sempre in agosto, ha toccato il 5,3 per cento, rimanendo stabile rispetto all’anno precedente, secondo i dati ufficiali. Inoltre, il numero di laureati in Cina quest’anno dovrebbe raggiungere un nuovo picco di 12 milioni 220 mila con un aumento di 430 mila unità rispetto all’anno scorso, aggravando ulteriormente la crisi occupazionale, considerando che ormai in Cina vige l’equazione neolaureato = disoccupato.
Riguardo alla (di solito scarsa) attendibilità dei dati ufficiali della dittatura cinese, l’economista Davy J. Wong, ha osservato che le cifre diffuse dal Partito comunista sono “prudenti” poiché escludono «moltitudini» di precari sottopagati e di scoraggiati che il lavoro hanno smesso di cercarlo «per cui il livello reale di disoccupazione è probabilmente più elevato». E anche il tasso complessivo del 5,3 per cento «appare stabile», ma si tratta in realtà «di un’illusione data dalla media» che nasconde la dilagante disoccupazione giovanile, perché il tasso di occupazione stabile «per i 30-59enni deriva dalla forte tenuta dei posti esistenti; il peggioramento della disoccupazione giovanile è invece dovuto alla stagnazione dei nuovi impieghi». Quanto alle cause: «il calo di fiducia nel mercato immobiliare e nelle imprese private comprime l’occupazione nei settori dei servizi e del privato, sui quali i giovani contano di più» e, conclude l’economista, «si tratta di un problema strutturale, non di una fluttuazione temporanea».
Ma i dati ufficiali sulla disoccupazione nascondono anche altri gravi problemi strutturali del cosiddetto “capitalismo alla cinese”. Dopo il Covid, un gran numero di giovani cinesi non è riuscito a trovare un impiego perché l’economia cinese dalla pandemia non si è mai ripresa. Questi milioni e milioni di giovani, hanno scelto di lasciare le sfavillanti metropoli per tornare nelle proprie città d’origine col proposito dichiarato di fare i “mantenuti” in casa dei genitori, tutt’al più occupandosi degli anziani familiari in cambio di vitto, alloggio e una paghetta da parte dei genitori o nonni, dando vita a un vero e proprio fenomeno sociale sconosciuto in Occidente. Il professor Zhang Dandan, docente dell’Università di Pechino, ha scritto in un articolo del 2023 che, se si considerano formalmente disoccupati (come in realtà sono) questi 16 milioni di giovani, il tasso reale di disoccupazione giovanile – qui si parla di marzo 2023 – era del 46,5 per cento, ben oltre il dato ufficiale del 19,7 per cento.
Non solo: Xu Zhen, operatore di Borsa sul mercato dei capitali cinese, spiega che la Cina attualmente ha due grossi problemi: «il primo è una recessione aggravata da una spirale deflazionistica e dall’invecchiamento della popolazione, e che si manifesta con elevati livelli di indebitamento del settore edilizio», che a sua volta si ripercuote «su tutta la filiera» del settore delle costruzioni. Il secondo, è legato alle nuove tecnologie come il fotovoltaico, l’eolico, i veicoli elettrici e i chip. Si tratta di ambiti «ad alta intensità di capitale, tecnologia e talenti, con conseguenti alti rapporti di indebitamento», e l’elevato livello di debito scoraggia le imprese dall’investire e consumatori dallo spendere, il che a sua volta aggrava una «spirale deflazionistica», che insieme all’invecchiamento demografico porterà anche a una contrazione degli investimenti e a un’ulteriore riduzione dei già bassi consumi. È «il fallimento della strategia di circolazione interna del regime comunista cinese» chiosa l’esperto di finanza.
Come se non bastassero i fattori endogeni, a aggravare la crisi occupazionale cinese sono intervenuti anche fattori esogeni, come la guerra commerciale con l’Occidente, che ha indebolito la domanda estera. La dinamica è ormai nota: per decenni, il Partito comunista cinese ha scaricato nell’economia mondiale il proprio colossale eccesso di capacità produttiva, facendo dumping e devastando i settori industriali di Europa e Stati Uniti. Ma questo gioco – fondato anche sull’avidità di determinati livelli della finanza internazionale – non poteva durare per sempre: «il mondo ha compreso chiaramente le intenzioni di dominio assoluto del Pcc», commenta Xu Zhen. Ora, Europa e America stanno limitando le importazioni cinesi, togliendo il tappeto da sotto i piedi al regime e mettendone davanti agli occhi del mondo intero l’enorme fragilità (a dispetto delle ostentazioni di “forza”), come dimostra l’ondata di fallimenti quasi immediati scatenata dall’introduzione dei dazi da parte dell’amministrazione Trump. In più, il Pcc ha recentemente iniziato a usare il proprio quasi monopolio delle terre rare come arma di ricatto per reagire ai dazi, ma con scarso successo.
Secondo un sondaggio tra 40 economisti, la crescita reale del Pil cinese dovrebbe essere intorno al 4,6 per cento. Un numero comunque impressionante in Occidente – specie in Europa – ma si deve tenere conto che in Occidente il valore del Pil si calcola sul fatturato, ossia sui beni e servizi effettivamente venduti, e quindi sulla ricchezza realmente prodotta. Il regime comunista cinese invece, applica il vecchio criterio sovietico di calcolare il Pil sulle merci prodotte a prescindere dal fatto che poi vengano vendute. La differenza è un abisso: con questo trucco, producendo al massimo della propria capacità, si può far crescere il Pil a dismisura, ma è una crescita falsa: a fronte delle merci invendute non è stata prodotta alcuna ricchezza, semplicemente perché nessuno le ha comprate. Tutt’altro: normalmente, i prodotti invenduti in Cina restano a marcire nei magazzini e nei piazzali. E quando il “giocattolo si rompe”, si scopre un’intera economia fondata su inefficienze, sprechi e decisioni dissennate. Un’economia totalmente espressione di un potere politico, invece che del mercato e dei reali bisogni di chi il mercato lo fa, ossia quel popolo che il Partito comunista cinese a parole dice di tutelare.