L’idea che gli individui abbiano un diritto inalienabile a perseguire la propria felicità rappresenta un concetto estremamente rivoluzionario. Prima del XVIII secolo, quasi nessuno al mondo lo riteneva possibile. Ancora oggi, solo una minima parte dell’umanità lo condivide. Altrettanto rivoluzionaria è l’idea che l’unico scopo dello Stato sia tutelare quel diritto. Possiamo discutere sui dettagli, ma il principio centrale è indiscutibile. Se sia io che voi abbiamo il diritto di inseguire la nostra felicità, sarebbe ingiusto che un governo imponesse oneri a voi solo per rendere me più felice.
I critici di questa filosofia politica non mancano di sottolineare che alcuni autori della Dichiarazione d’indipendenza americana possedevano schiavi. Ma ricordiamo che, all’epoca, quasi tutti gli altri nel mondo credevano che non esistesse nulla di simile a un diritto individuale. Riconoscendo che alcune persone avessero diritti, i fondatori aprirono una porta che inevitabilmente si sarebbe spalancata per tutti gli altri. La loro affermazione del diritto alla rappresentanza e all’autogoverno si applicava inizialmente agli uomini liberi e proprietari terrieri delle tredici colonie nordamericane. Grazie alla loro lungimiranza, da allora abbiamo esteso il diritto a perseguire la felicità a un numero sempre maggiore di americani.
La Dichiarazione d’indipendenza americana fu redatta in un’epoca in cui il mondo stava vivendo due grandi trasformazioni, entrambe essenziali per renderla possibile. La prima era di natura intellettuale: un radicale mutamento nel modo di concepire i rapporti tra gli esseri umani. Oggi lo chiamiamo Illuminismo o Età della ragione. Al posto del dominio della Chiesa o dello Stato (impero o monarchia), il pensiero illuminista affermava che gli individui fossero entità morali indipendenti, che dovevano interagire tra loro sulla base della ragione, della persuasione e dello scambio volontario. Stephen Pinker ha dedicato un intero libro all’idea che l’Illuminismo sia la ragione per cui oggi non viviamo più al livello di sussistenza – a rovistare nei boschi in cerca di radici e bacche, come fecero i nostri antenati per centinaia di migliaia di anni. L’altra grande trasformazione fu economica. Prima del XVIII secolo, la maggior parte delle persone in gran parte del mondo non avrebbe potuto sopravvivere sotto l’assetto politico delineato dalla Dichiarazione d’indipendenza.
I nostri lontani antenati erano cacciatori-raccoglitori che vivevano in piccoli gruppi. Esistevano al livello di mera sussistenza e erano in perenne conflitto con altre tribù. Nella caccia, nella raccolta e nelle guerre, si affidavano a un’azione cooperativa, in cui gli individui subordinavano il proprio interesse immediato al benessere a lungo termine del gruppo. Pensate a un plotone di soldati in missione militare. Se ciascuno inseguisse la propria felicità personale, la missione fallirebbe inevitabilmente. I nostri antenati remoti, proprio come quel plotone, erano in guerra con altre tribù e con la natura stessa. Poiché non avevano mercati né governi (almeno come li intendiamo oggi), si basavano fortemente su norme culturali per imporre attività cooperative. Riti e rituali celebravano il sacrificio di sé: l’eroismo in battaglia, il rischio nella caccia alla grande selvaggina, la diligenza nella raccolta del cibo e altri doveri collettivi. Si incoraggiava a considerare l’intera tribù come una famiglia allargata. Gli altri membri erano visti come parenti, non come controparti in uno scambio. Gli estranei erano nemici.
Col tempo, la vita tribale che aveva dominato l’esistenza umana per oltre 200 mila anni iniziò a cedere il passo al mercato. Le persone cominciarono a vedere gli stranieri di altre comunità come partner commerciali anziché avversari militari. La specializzazione e il commercio iniziarono a collegare individui che vivevano in luoghi lontani. Le tribù si trasformarono in città, e la specializzazione e lo scambio sostituirono i legami di parentela anche nelle comunità locali. Un recente studio, pur riferendosi a sviluppi di mercato più moderni, riassume i benefici pro-sociali del commercio osservando che: «un maggiore accesso al mercato ha favorito l’universalismo, la tolleranza e la fiducia generalizzata».
Quando siamo sostenuti da modelli prevedibili di cooperazione con gli estranei, estendiamo la fiducia e la disponibilità a interagire oltre i nostri vincoli tribali e familiari. Nelle comunità dei nostri antenati remoti, un individuo poteva fare il massimo bene per gli altri sacrificando il proprio interesse personale per il gruppo intero. In un mercato interconnesso, invece, un individuo poteva fare il massimo bene per il maggior numero di persone perseguendo il proprio interesse, offrendo qualcosa che gli altri desideravano acquistare.
Non è forse una coincidenza che la Dichiarazione d’indipendenza sia stata pubblicata nello stesso anno in cui uscì La ricchezza delle nazioni di Adam Smith. Nel 1776, le menti più illuminate del mondo occidentale credevano che gli individui avessero il diritto di perseguire la propria felicità e che il governo dovesse garantire il rispetto dei diritti altrui. Le due grandi trasformazioni – un cambiamento nel modo di pensare e nel modo di guadagnarsi da vivere – si fusero in un assetto politico mai esistito prima: il liberalismo classico. La Costituzione americana, che incarnava lo spirito della Dichiarazione d’indipendenza, impose limiti al governo federale, ma non ne pose alcuno ai governi statali e locali. I diritti garantiti dalla legge federale furono progressivamente considerati avocati anche a livello statale e locale, soprattutto dopo la Guerra civile. La Corte Suprema e l’evoluzione dell’opinione pubblica ampliarono rapidamente gli ideali della Dichiarazione a un numero maggiore di residenti della nazione. Furono infine riconosciuti il diritto di voto agli uomini neri e, in seguito, a tutte le donne.
Tuttavia, mentre ci avviciniamo al 250esimo anniversario della Dichiarazione, è utile riflettere su quali cambiamenti politici successivi siano stati coerenti con la sua visione di fondo e quali no. Dove abbiamo rispettato i suoi ideali e dove abbiamo fallito?
Per quanto riguarda il ruolo del governo nella tutela del nostro diritto a perseguire la felicità, la storia è un vero e proprio ottovolante di politiche pubbliche. Nel 1905, la Corte Suprema annullò una legge statale che vietava ai lavoratori delle panetterie di superare le 60 ore settimanali. Quella norma proteggeva i panificatori affermati sopprimendo la concorrenza di chi era disposto a lavorare di più, per lo più immigrati etnici, tra cui italiani, ebrei e il tedesco Joseph Lochner, il ricorrente. Le imprese consolidate usavano il governo statale per bloccare le attività produttive altrui, operando come una corporazione medievale.
Tra il 1897 e il 1937, in quella che è nota come l’era Lochner, la Corte Suprema invalidò 184 leggi. Per la maggior parte, si trattava di norme che limitavano la libertà di contratto delle persone, di solito per evidenti motivi di interesse particolare. Chiaramente, le sentenze dell’era Lochner erano coerenti con il concetto liberale classico del ruolo appropriato del governo. Esse rovesciarono politiche pubbliche di interesse particolare che affondano le radici fin dalle prime colonie in questo paese. Le pressioni politiche della Grande Depressione posero fine all’era Lochner, e gli interessi particolari ripresero il potere.
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