Traffico d’organi in Cina, associazioni umanitarie chiedono all’Onu indagine interna

Lunedì quattro organizzazioni per i diritti umani hanno inviato una lettera alle Nazioni Unite per chiedere di fermare la pratica del prelievo illegale di organi in Cina. Hanno anche chiesto di poter indagare nel territorio cinese per rendere la medicina dei trapianti etica e sicura.

La lettera, inviata il 4 agosto a Zeid Ra’ad Al Hussein, alto Commissario per i Diritti umani, è stata firmata dai Medici contro il prelievo forzato di organi (Dafoh), dal Partito Radicale, dalla sezione svizzera della Società per i popoli minacciati e dalla Società internazionale per i diritti umani.

«Come organizzazioni impegnate a preservare i diritti umani, siamo profondamente preoccupati per l’approvvigionamento forzato di organi – reperimento di organi senza il consenso libero e volontario – dai prigionieri di coscienza in Cina», si legge nel comunicato rilasciato dalla Dafoh, ong in difesa dell’etica medica con sede a Washington.

Le quattro organizzazioni firmatarie hanno anche chiesto di indagare dall’interno, creando un ufficio o un gruppo di lavoro per fermare gli abusi dei trapianti d’organi, come il mercato nero e il turismo dei trapianti, e fermare il prelievo forzato.

Secondo Marco Perduca, rappresentante delle Nazioni Unite e del Partito Radicale, quest’azione costringerebbe la Cina ad adeguarsi. «Per quanto le denunce presentate fossero circostanziate, riteniamo che se un organo delle Nazioni Unite potesse inviare i propri rappresentanti a fare ulteriori indagini indipendenti, ma ufficiali, sicuramente il Paese in questione, nonché la comunità internazionale, sarebbero investite della questione in modo formale e sarebbe invitati, se non costretti, a prendere provvedimenti in merito», ha spiegato Perduca. Il rappresentante delle Nazioni Unite ritiene che l’Alto commissario per i diritti umani possa indagare dall’interno inviando degli esperti disposti a intervistare le persone interessate e a parlare con i loro familiari, con medici e con i difensori dei diritti umani.

La lettera ha seguito una conferenza tenuta al Palazzo delle Nazioni Unite di Ginevra il 24 giugno. In quell’occasione Carlos Jimenez, consulente legale della Dafoh, aveva definito «olocausto» questa pratica illegale, che ha come vittime soprattutto i praticanti del Falun Gong, una popolare disciplina meditativa perseguitata in Cina dal 20 luglio 1999 per ordine di Jiang Zemin, allora leader della Cina.

«Jiang Zemin con la collaborazione del Partito Comunista Cinese, ha intrapreso un autentico olocausto contro il suo stesso popolo. Ripeto la parola olocausto, perché solo così si può definire il fatto che quasi cento milioni di cittadini cinesi innocenti siano perseguitati fino alla morte solo per la loro fede nel Falun Gong», aveva detto Jimenez a Ginevra. Arresti, torture, lavaggi di cervello, detenzione arbitraria, licenziamento dal lavoro, fino ad arrivare alla sottrazione di organi senza il consenso volontario, ecco il ‘prezzo’ della fede di queste persone nella Cina comunista. Un persecuzione che ancora oggi continua.

La presentazione della lettera alle Nazioni Unite è solo l’ultima di una serie di azioni da quando nel 2006 David Matas, avvocato canadese per i diritti umani, e David Kilgour, ex segretario di Stato canadese per l’Asia-Pacifico, hanno lanciato un’inchiesta sul traffico illegale d’organi in Cina, scoprendo una verità raccapricciante. Sulla base di oltre 30 prove indiziarie Matas e Kilgour hanno concluso che in Cina esiste un sistema gestito dal regime in cui il personale sanitario e militare rimuove gli organi dai prigionieri di coscienza – ossia cristiani, tibetani, uiguri e praticanti del Falun Gong – contro la loro volontà. Questi organi alimentano un fiorente mercato che attira molti stranieri, a causa della grande disponibilità e dei tempi d’attesa incredibilmente brevi. Secondo la Dafoh gli organi prelevati forzatamente provengono soprattutto dai prigionieri torturati e secondo un rapporto del 2005 di Manfred Nowak, relatore speciale delle Nazioni Unite, il 66 per cento delle presunte vittime sono praticanti del Falun Gong, seguiti da uiguri (11 per cento) e tibetani (7 per cento).

 
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