Studio: Le persone vicine alla morte a causa di lesioni cerebrali traumatiche possono ancora riprendersi

Di George Lemons

Quando i medici consigliarono di staccare la spina a un ventiduenne in coma dopo un incidente stradale, sua madre cercò un’ancora di salvezza nel Brain Rehabilitation and Injury Network (sigla: Brain). Per settimane, la fondatrice del gruppo di difesa, Sue Rueb, ha fatto la veglia al giovane privo di sensi, leggendogli testi per circa due settimane.

Disse a uno dei neurologi: «Tutto ciò di cui abbiamo bisogno, signore, è il tempo».

Negli ospedali statunitensi, viene fornita una prognosi finale 72 ore dopo una grave lesione cerebrale traumatica (Tbi): un semplice battito di ciglia in una corsa contro il tempo. Eppure, secondo una nuova ricerca, potrebbe essere troppo poco. Nuove prove suggeriscono infatti che alcuni pazienti possono sfidare le probabilità e recuperare conoscenza, anche in casi di grave trauma cranico, se solo viene concesso loro più tempo.

Un recente studio pubblicato sul Journal of Neurotrauma sostiene che ci vorrebbe un «approccio cautelativo» nelle decisioni relative alla rimozione del supporto vitale. Lo studio ha esaminato il potenziale di sopravvivenza e di recupero dell’indipendenza tra i pazienti con trauma cranico acuto deceduti dopo la sospensione del trattamento di sostentamento vitale (Wlst).

I ricercatori hanno arruolato oltre 3.000 pazienti con trauma cranico provenienti da 18 centri traumatologici negli Stati Uniti tra il 2014 e il 2021. Tutti i partecipanti sono stati arruolati entro 24 ore dall’aver subito lesioni cerebrali e circa la metà è stata seguita per un anno. Di questi pazienti, 90 sono morti dopo la rimozione del supporto vitale.

I ricercatori hanno poi confrontato questi 90 casi con partecipanti simili a cui non era stato sospeso il trattamento di sostentamento vitale.

Mentre molti di quelli tenuti in vita alla fine sono morti (soprattutto i pazienti più anziani e quelli con lesioni più gravi), oltre il 30% dei pazienti è stato in grado di riprendersi e raggiungere un certo livello di indipendenza entro sei mesi. Almeno la metà dei pazienti più giovani con lesioni cerebrali meno gravi hanno riacquistato l’indipendenza, e alcuni sono addirittura riusciti a riprendere una vita normale.

«I nostri risultati supportano un approccio più cauto nel prendere decisioni tempestive sulla sospensione del supporto vitale», ha detto in un comunicato stampa Yelena Bodien del Centro di Neurotecnologia e Neurorecupero del Dipartimento di Neurologia del Massachusetts General Hospital, coautrice dello studio.

Il trauma cranico è una condizione «complessa»

Un trauma cranico si verifica quando una forza esterna, come un colpo alla testa dovuto a una caduta, un incidente automobilistico, un’aggressione o un altro trauma, altera la funzione cerebrale. Sebbene i Tbi siano classificati come lievi, moderati o gravi, molti nella comunità medica trovano queste categorie eccessivamente semplificate per una condizione così complessa, secondo quanto ha spiegato il dottor Brent Masel, direttore medico della Brain Injury Association of America, non associato allo studio. Un numero significativo di sopravvissuti al trauma cranico sviluppa problemi a lungo termine.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) definisce il trauma cranico come un processo patologico cronico. Le potenziali complicanze includono un aumento del rischio di convulsioni, disturbi del sonno, malattie neurodegenerative, problemi neuroendocrini, problemi psichiatrici, disfunzioni sessuali, incontinenza e disregolazione metabolica che persistono per mesi o anni.

Secondo il dottor Masel, anche l’aspettativa di vita può essere significativamente ridotta: di circa sette anni per i casi di trauma cranico da moderati a gravi. «I risultati possono variare da persona a persona, e i dati pubblicati dal Cdc [Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie, ndr] mostrano che la lesione cerebrale è un processo dinamico in cui molte persone migliorano o peggiorano».

«Coscienza nascosta»

Secondo la dottoressa Kristen Dams-O’Connor, direttrice del Centro di ricerca sulle lesioni cerebrali traumatiche del Monte Sinai, ci sono diversi livelli di coscienza sotto il termine generico di «coma».

Il coma è uno stato di incoscienza in cui il paziente non reagisce all’ambiente circostante. Mentre è in coma, il paziente è vivo ma privo di sensi, con un’attività cerebrale minima e l’incapacità di svegliarsi attraverso la stimolazione fisica o uditiva.

Quando i pazienti in coma necessitano di supporto vitale, gli operatori sanitari a volte hanno conversazioni difficili con le famiglie sulla questione se il paziente preferirebbe porre fine alla vita piuttosto che rischiare di vivere in uno stato indesiderabile, afferma la Dams-O’Connor, facendo riferimento alla ricerca condotta dal collega dottor Brian Edlow, che ha lavorato nel campo dell’uso del neuroimaging avanzato per rilevare qualcosa chiamata «coscienza nascosta».

Questo accade quando alcuni pazienti sembrano essere incoscienti, ma in realtà hanno una forma di coscienza nascosta. Sono consapevoli di ciò che accade intorno a loro, ma non possono esprimersi o comunicare nei modi consueti, come parlare, muoversi o fare gesti.

Secondo la dottoressa, il rilevamento della «coscienza nascosta» attraverso il neuroimaging avanzato ha «alimentato un messaggio di speranza». Questo tipo di imaging può individuare indicatori nel cervello che non vengono rilevati dalle valutazioni cliniche e possono avere un valore prognostico significativo. Alcune persone che sembrano avere poche speranze di guarigione possono possedere una coscienza nascosta, che è associata a risultati migliori.

Risa Nakase-Richardson, neuropsicologa clinica presso il James A. Haley Veterans’ Hospital, ha utilizzato il database nazionale dei sistemi modello Tbi, che comprende 16 centri in tutti gli Usa, incluso il Mount Sinai, che arruolano e seguono i pazienti longitudinalmente dalla riabilitazione ospedaliera.

La signora Nakase-Richardson dirige i Centri di riabilitazione per politraumi. Ha quindi accesso a un gruppo di individui a lungo termine, alcuni dei quali rimangono affetti da disturbi traumatici della coscienza per mesi dopo l’infortunio.

La sua ricerca ha rilevato che tra i pazienti incapaci di seguire i comandi nel momento della dimissione dalla riabilitazione ospedaliera, che potrebbe avvenire mesi dopo l’infortunio, dal 19% al 36% ha raggiunto l’indipendenza funzionale cinque anni dopo, secondo quanto ha affermato la dott.ssa Dams-O’Connor. Alcuni pazienti con trauma cranico, per i quali i medici avevano consigliato di «staccare la spina» a causa della gravità della lesione, sono sopravvissuti fino a diventare sostenitori dei suoi studi di ricerca.  «Le loro vite possono essere diverse, ma valgono davvero la pena di essere vissute».

Con del tempo in più, il recupero

Anni dopo, quella giovane vittima di un incidente cammina e parla. Per la Rueb, storie del genere rafforzano il motivo per cui riferirsi a pazienti «cerebrolesi» è sia impreciso che demoralizzante. «Hanno lesioni cerebrali e le persone che sono sopravvissute sono eroi, nella mia mente».

Dagli ictus alle ferite da arma da fuoco, la signora Rueb è stata testimone di quelli che sembravano essere numerosi miracoli quando le famiglie si sono rifiutate di rinunciare ai loro cari troppo presto dopo un trauma cerebrale che aveva cambiato loro la vita.

 

Versione in inglese: People Near Death From Traumatic Brain Injury May Still Revive: Study

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