Storie come Il Signore degli Anelli possono salvare il mondo

Di Walker Larson

Sapevi che fiabe come La bella e la bestia, Tremotino e Il fabbro e il diavolo potrebbero aver avuto origine tra i 4.000 e i 6.000 anni fa? Gli studiosi la pensano così.

Un ricercatore di fiabe, il dottor Jamie Tehrani, afferma che queste storie «sono state raccontate da prima ancora che esistessero l’inglese, il francese e l’italiano».

«Probabilmente venivano raccontate in una lingua indoeuropea ora estinta». Eppure incantano ancora i bambini oggi. E l’incarnazione moderna della fiaba – il genere della narrativa fantasy – è diventata un colosso nel mondo della letteratura contemporanea, sia per bambini che per adulti.

Cosa può spiegare la persistenza e la continua risonanza delle fiabe e della fantasia? Qual è il potere unico di questo tipo di narrativa?

Lotta spirituale

La serie Le cronache di Narnia di Cs Lewis è una classica storia fantasy che tocca temi morali profondi.

La fantasia prende le realtà spirituali e le rende fisiche. In nessun altro posto oltre al fantasy (almeno nel fantasy tradizionale) possiamo trovare in modo così netto la differenza tra bene e male, verità e menzogna, onore e ignominia. I cattivi nella fantasia, come un drago o uno stregone oscuro, sono l’incarnazione del male stesso.

Tradizionalmente, non sono personaggi complessi con motivazioni contrastanti. Sono malvagi puri e semplici, perché rappresentano forze totalmente corrotte, come il peccato, la tentazione o il demoniaco. La vera fantasia ha un carattere moralmente alto.

Questo non vuol dire che le fiabe siano, necessariamente, mera allegoria. E, in effetti, penso che le migliori non lo siano. I due grandi maestri del fantasy, Cs Lewis e Jrr Tolkien, hanno adottato approcci diversi a questo problema. La narrativa di Lewis era caratterizzata da evidenti parallelismi con il cristianesimo, mentre Tolkien evitava intenzionalmente l’allegoria nei suoi scritti, sebbene definisse Il Signore degli Anelli un’opera «fondamentalmente religiosa e cattolica».

Penso che un termine migliore di allegoria sia forse l’«eco». La fantasia riecheggia e drammatizza le lotte spirituali e morali che tutti noi affrontiamo nella vita. Mostri e incantesimi, ricerche e vero amore: queste cose sono reali, forse le cose più reali della vita. Ognuno di noi combatte i mostri: la depressione, la povertà, la malattia, i propri peccati, l’ingiustizia, la perdita, la routine quotidiana, qualunque essa sia. Ognuno di noi incontra incantesimi (sia buoni che cattivi): la tentazione di una droga, l’incantesimo della musica, la quiete di una serata che si posa dolcemente e i misteriosi processi e poteri della natura.

Ognuno di noi affronta missioni disperate: la carriera che stiamo inseguendo, le persone che stiamo cercando di salvare, la persona che stiamo cercando di diventare. E ci sono innumerevoli pericoli che potrebbero allontanarci dalle nostre ricerche. E c’è l’amore.

Forse non saremo in grado di riportare in vita una principessa attraverso un bacio, ma possiamo far uscire qualcuno dalla disperazione mostrandogli il nostro amore e la nostra gentilezza. Gli eroi non sono solo fantasia.

E quindi l’importanza della fantasia, che riflette la presenza di queste meraviglie nel nostro mondo e tocca la nostra natura spirituale, è molto reale e molto personale.

Cs Lewis si esprime in questo modo in una lettera alla signorina Matthews: «Ma la sensazione, il senso di un passato immenso, di pericolo imminente, di compiti eroici compiuti dalle persone apparentemente meno eroiche, di distanza, vastità, estraneità, intimità (il tutto mescolato insieme) è esattamente come mi sembra essere la vita».

Il mondo incantato

Nello stesso tempo in cui una fiaba rende fisiche le lotte morali e spirituali, paradossalmente prende le realtà fisiche e le spiritualizza o incanta.

Lo scopo della lettura fantasy non è fuggire nel regno dei sogni per allontanarci dalla realtà. Leggiamo piuttosto il fantasy per ritornare in questo mondo con occhi purificati che ci permettano di vedere le cose di tutti i giorni per le meraviglie che realmente sono, realtà piene di significato, bellezza e magia. Jrr Tolkien sottolinea questo punto nel suo famoso saggio On Fairy Stories:

E in realtà le fiabe trattano in gran parte, o (quelle migliori) principalmente, cose semplici o fondamentali, non toccate dalla fantasia, ma queste semplicità sono rese ancor più luminose dalla loro ambientazione. […] Fu nelle fiabe che per la prima volta intuii la potenza delle parole e la meraviglia delle cose, come la pietra, il legno e il ferro; albero ed erba; casa e fuoco; pane e vino.

Gk Chesterton fa eco a questi sentimenti nelle sue riflessioni sul romanzo fantasy di George MacDonald, La principessa e il folletto, sostenendo che «ha fatto la differenza nella mia intera esistenza [mostrando, ndr] quanto siano vicine sia le cose migliori che quelle peggiori a noi fin dall’inizio […] e trasformando tutte le scale, le porte e le finestre ordinarie in cose magiche». E continua dicendo che il romanzo è «il più reale, il più realistico, nel senso esatto dell’espressione, il più simile alla vita».

Per Gk Chesterton, storie di fantasie come La principessa e il folletto esprimevano il vero mistero della vita.

Lo scrittore Neil Gaiman, riassumendo Chesterton, afferma che la visione fiabesca della realtà è «più che vera». Come può qualcosa essere più che vero? Se si legge abbastanza fantasy, le colline diventano scene di eroismo, le foreste diventano recessi di magia, le montagne diventano profezie apocalittiche e i fiumi diventano la dimora degli spiriti dell’acqua. E questa non è una semplice illusione: c’è qualcosa di profondamente vero in tali impressioni del mondo. Chiunque abbia trascorso molto tempo in questi ambienti naturali lo sa. Non so spiegare il motivo con precisione. È un mistero. C’è un’energia che attraversa il nostro mondo, antica quanto il tempo e misteriosa quanto la stella più lontana, ed espressa al meglio dalle «fate».

La fantasia ci aiuta a raggiungere un senso di meraviglia di fronte alla realtà e, in questo senso, è esattamente l’opposto di molta «narrativa realista» contemporanea. Chesterton scrive in La nonna del drago che «Il folklore significa che l’anima è sana di mente, ma che l’universo è selvaggio e pieno di meraviglie. Realismo significa che il mondo è noioso e pieno di routine, ma che l’anima soffre e urla».

In gran parte della narrativa moderna – anche se non in tutta, certamente – avvertiamo un rifiuto di fondo della realtà e una conseguente noia che rasenta la disperazione.

«La vita è priva di significato e crudele» sembra essere la conclusione di gran parte della narrativa moderna. Come scrive il professore di letteratura dott. John Senior in The Death of Christian Culture: «Senza il cibo della musica, la musica si ammala e l’amore muore lasciando sospetto e disgusto. […] Ciò di cui tutti i principali scrittori del [20°, ndr] secolo sono stufi, è il se stessi».

Stufi di se stessi perché sono intrappolati in se stessi e hanno perso il senso di soggezione rivolto all’esterno. Altrove nel libro, Senior scrive: «L’apatia è l’inferno del modernismo. L’estetica estrema è anestetica: intorpidita, senza sensazioni, inconscia».

Se c’è una cosa certa riguardo a una visione della realtà ispirata alle fiabe, è che la realtà è tutt’altro che noiosa. È l’antidoto alla noia. E per noi una bella boccata d’aria pulita.

Il lieto fine

«E vissero felici e contenti»: la frase è diventata un luogo comune, associato soprattutto alle fiabe. L’idea viene spesso derisa; infatti, se si dice che qualcuno sta ‘vivendo in un mondo di fantasia’ o ‘crede nelle favole’, si suggerisce che sia in fase di negazione o che sia un illuso. Eppure l’ultima ragione per cui le fiabe hanno un tale potere di commuoverci e sono rimaste con noi nel corso della storia è il loro potenziale lieto fine, anche di fronte a situazioni apparentemente senza speranza.

Una parte della nostra natura vuole credere, giustamente, che la vittoria finale sia possibile, che alla fine non tutto sia perduto e che, forse, il segreto dell’universo sia la gioia.

Ad esempio, la scrittrice K.M. Weiland ha recentemente riflettuto sul potere dell’epopea di Tolkien, Il Signore degli Anelli, di portarti «lì e poi indietro» – ovvero di portare il lettore nell’abisso della disperazione, e poi attirarlo o farlo uscire di nuovo ripristinando la speranza. In effetti, la trilogia è soprattutto un libro sulla disperazione, eppure non finisce in modo disperato.

Questo fa parte del suo immenso potere e del potere di tutta la migliore letteratura fantasy.

Questo è il punto che Tolkien stesso sottolinea verso la fine del suo saggio Sulle storie delle fate.

«La consolazione delle fiabe, la gioia del lieto fine; o, più correttamente, della bella catastrofe, dell’improvvisa e gioiosa ‘svolta’ (poiché non esiste una vera fine per nessuna fiaba): questa gioia, che è una delle cose che le fiabe possono produrre sommamente bene, non è essenzialmente ‘evasiva’, né ‘fuggitiva’. Nella sua ambientazione da favola, o da un altro mondo, è una grazia improvvisa e miracolosa: non si può mai contare che si ripeta. Non nega l’esistenza della discatastrofe, del dolore e del fallimento: la possibilità di questi è necessaria alla gioia della liberazione; nega (a fronte di molte prove, se vuoi) la sconfitta finale universale e in questo senso è evangelio, offrendo un fugace barlume di Gioia, Gioia oltre le mura del mondo, toccante come il dolore».

 

L’autore Walker Larson insegna letteratura in un’accademia privata nel Wisconsin, dove risiede con la moglie e la figlia. Ha conseguito un master in letteratura e lingua inglese e i suoi scritti sono apparsi su The Hemingway Review, Intellectual Takeout e nel suo Substack, «TheHazelnut».

Articolo in inglese: Stories Like ‘Lord of the Rings’ Can Save the World

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