Quando a bloccare il Brennero erano gli agricoltori

Il passo del Brennero, il principale punto di confine a nord per i flussi commerciali italiani su gomma, nel 2013 era stato teatro di una protesta del tutto opposta, quando la Coldiretti, sostenuta anche da alcuni ministri italiani, aveva in parte bloccato il traffico controllando i camion, sospettati di importare prodotti contraffatti.

Da tempo una delle principali associazioni di categoria degli agricoltori italiani si batte contro il fenomeno del finto Made in Italy, che assume diverse forme, come quella di prodotti che provengono dall’estero, ma che poi vengono etichettati come italiani, sia in modo legale – perché hanno subito una trasformazione in Italia – che illegale (cambiando semplicemente l’etichetta). La Coldiretti parla infatti di concorrenza sleale da parte di aziende estere, che vendono materie prime a minor costo (e qualità), che poi vengono fatte comunque risultare come Made in Italy. Qualcosa che spesso fanno anche le aziende italiane.

NON SOLO PARMESAN: LAVORI FORZATI E TORTURE NEI CAMPI DI POMODORI

In tutto questo giro sono coinvolte mafie di ogni nazionalità – nostrana, russa e asiatiche varie – e persino i campi di lavoro cinesi che operano nell’agroalimentare.
Epoch Times ha a suo tempo riportato che almeno due campi di lavoro cinesi, dove sia criminali che dissidenti religiosi e politici vengono sfruttati e spesso torturati, producono i pomodori che finiscono sulle nostre tavole, grazie alla complicità di un imprenditore italiano, recentemente defunto. L’identità dell’imprenditore è stata comunicata a Epoch Times e anche al governo italiano dalla Laogai Research Foundation (gruppo che fa informazione sui campi di lavoro cinesi, detti appunto laogai). Un incontro di diversi anni fa, in cui l’associazione aveva descritto al governo il problema, è stato secretato, e finora niente sembra essersi mosso.

ITALIAN SOUNDING, IL FALSO MADE IN ITALY 2.0

Il fenomeno del falso Made in Italy assume quindi varie forme. «Una mozzarella su quattro è senza latte», recitava uno degli slogan usati dalla Coldiretti durante l’occupazione del confine del Brennero a dicembre 2013; «il falso prosciutto italiano ha fatto perdere il 10 per cento dei posti di lavoro», diceva un altro. Contraffazioni che hanno portato a gravi conseguenze per gli imprenditori italiani onesti: nel 2013 si parlava di 36 mila posti di lavoro persi e di 615 mila suini in meno in Italia.
Secondo dati più recenti, il finto Made in Italy, nelle sue varie sfaccettature, costituisce un business di 60 miliardi di euro all’anno, quasi il doppio di quei 36,8 miliardi in esportazioni che l’Italia ha ottenuto con il vero Made in Italy. All’estero molti prodotti vengono percepiti come italiani a causa dei nomi ingannevoli come ‘Parmesan’ (che imita il Parmigiano Reggiano) o recanti simboli di città e regioni italiane: è il fenomeno del cosiddetto Italian Sounding. Due prodotti su tre che sembrano italiani non lo sono, secondo la Coldiretti.
Confagricoltura parla di quasi 20 mila posti di lavoro persi all’anno a causa del contrabbando e della contraffazione dei prodotti, e i dati Censis/Mise parlano di 6,5 miliardi di danni per l’Italia e 105 mila posti di lavoro persi.

SCARSA TUTELA DALLA UE: QUESTIONE DI ETICHETTA

Da tempo la Coldiretti, di concerto con il Governo, chiede una normativa europea più stringente sulle etichette. Attualmente su molti prodotti alimentari non viene segnalato il Paese da cui provengono le materie prime: viene indicato solo quello dove il prodotto ha subito l’ultima sostanziale trasformazione. È ovvio che una normativa più completa sulle etichette beneficerebbe il Made in Italy, ma è altrettanto ovvio che creerebbe problemi agli altri Stati.

Nel 2014, un anno dopo la protesta della Coldiretti, alcuni passi avanti sulle etichette, in sede Europea, sono stati fatti. Ad esempio è ora obbligatorio indicare la provenienza delle carni bovine, ovine, suine e caprine, e anche di quei prodotti l’omissione della cui provenienza potrebbe portare a fraintendere la stessa. Per esempio se una ditta è tedesca, il consumatore può aspettarsi che produca in Germania. Ma se questa produce in Italia, o in un altro Paese, allora va segnalato sull’etichetta. Quest’obbligo costituisce un importante passo avanti nel fronteggiare il problema dell’Italian Sounding, sebbene in realtà non necessariamente i consumatori vadano a consultare l’etichetta. Un grave problema è che l’Ue non ritiene conforme ai propri principi l’indicazione dell’origine del prodotto in ogni caso, in quanto causa di discriminazione tra i prodotti che hanno origine in diversi Stati membri. Nonostante la ‘discriminazione’ per molti consumatori sia invece un diritto sacrosanto.

Fatto sta che adesso non possiamo sapere se davvero il pomodoro del supermercato che mettiamo nell’insalata, sia italiano o cinese. E la cosa ha implicazioni non solo qualitative, ma anche sanitarie ed etiche. Soprattutto considerando che ci sono di mezzo dei campi di lavoro forzato.

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