La Belt and Road cinese subisce un’altra battuta d’arresto

Di Milton Ezrati

La Belt and Road Initiative (Bri) di Xi Jinping ha incontrato difficoltà anche prima che l’Italia iniziasse a parlare di ritiro dal programma. Ora, la perdita di Roma assesterà un colpo particolarmente duro a questo progetto un tempo imponente. Nel frattempo, la Casa Bianca di Biden e l’India hanno annunciato un piano per un corridoio commerciale che costruirà rotte ferroviarie e marittime per collegare l’Asia con il Medio Oriente e l’Europa; in altre parole, un’alternativa alla Bri cinese.

L’obiettivo di Pechino di utilizzare la Bri come mezzo per estendere la propria portata economica e diplomatica globale sembra essere ora ben al di sotto delle ambizioni che hanno spinto Xi a descriverla non molto tempo fa come il «progetto del secolo».

Roma non ha ancora preso una decisione definitiva. Il primo ministro Giorgia Meloni, intervistata durante i recenti incontri del G20 in India, aveva dichiarato ai media che il suo governo non era ancora arrivato ad una decisione finale. L’Italia ha tempo fino a dicembre, poiché gli accordi stabiliti quando l’Italia ha aderito alla Bri nel 2019 si rinnoveranno automaticamente l’anno prossimo, a meno che Roma non faccia un annuncio formale di ritiro. Se, come è probabile, l’Italia si ritirerà dalla Bri, la Cina perderà l’unico membro che fa anche parte del G7.

Gli ambienti diplomatici ipotizzano che Washington abbia fatto pressioni sugli italiani affinché si ritirassero. Dopotutto, l’Italia assumerà la presidenza di turno del G7 l’anno prossimo. Ma se Washington ha esercitato pressioni, né Washington né Roma lo ammetteranno ufficialmente. Tutto ciò che il governo italiano ha detto è che l’adesione non ha apportato benefici sufficienti all’economia e che l’Italia è determinata a mantenere relazioni commerciali e diplomatiche amichevoli con la Cina.

Durante gli incontri del G20, la Meloni e il premier cinese Li Qiang hanno espresso congiuntamente l’intenzione di «consolidare e approfondire il dialogo tra Roma e Pechino». Tuttavia, il fatto che sia possibile mantenere buone relazioni dopo il ritiro dalla Bri potrebbe, secondo il pensiero di Washington, incoraggiare altri a recidere i propri legami con l’accordo.

La probabile partenza dell’Italia non è l’unico problema che la Bri deve affrontare. Molti altri membri hanno trovato gli accordi gravosi. Fin dal suo inizio, la Bri ha sempre emanato un’atmosfera mafiosa. Pechino si avvicina ai Paesi bisognosi dell’Asia, dell’Africa, dell’America Latina, del Medio Oriente e della periferia dell’Europa e offre prestiti per importanti progetti infrastrutturali: porti, collegamenti ferroviari, dighe, strade e simili. Le banche cinesi di proprietà statale organizzano il finanziamento e gli appaltatori cinesi eseguono i progetti e, una volta completati, li gestiscono. Se il Paese ospitante non paga, i progetti passano sotto la proprietà cinese.

In ogni caso, Pechino ha guadagnato una notevole influenza sulle nazioni che si sono lasciate coinvolgere. Da quando Xi ha preso il potere nel 2012, la Cina ha concesso prestiti di questo tipo per oltre mille miliardi di euro in circa 150 Paesi, cosa che ha reso la Cina il più grande creditore ufficiale del mondo.

Nel corso del tempo, molti clienti della Bri si sono resi conto della natura unilaterale di questi accordi. Gran parte del problema è che i progetti perseguiti nell’ambito della Bri sono stati scelti per ragioni politiche e diplomatiche piuttosto che economiche. Molti di questi sforzi sono sempre stati economicamente dubbi, e ora è chiaro che questi progetti non riescono a produrre abbastanza guadagni per sostenere i prestiti. Nello Sri Lanka, anche prima che la pandemia di Covid-19 bloccasse il commercio, il porto costruito dalla Bri non ha mai visto il traffico necessario per soddisfare i termini del prestito.

Cose simili si stanno verificando in tutto il sistema. Il Pakistan, uno dei maggiori partecipanti alla Bri, è venuto meno ai suoi obblighi a tal punto che ha dovuto rivolgersi al Fondo monetario internazionale per chiedere aiuto. I prestiti in Africa sembrano particolarmente traballanti. Gli economisti della Banca Mondiale stimano che circa il 60% di tutti i prestiti Bri coinvolgono ora Paesi in difficoltà finanziarie.

Per molto tempo Pechino ha rifiutato di riconoscere i problemi finanziari. I banchieri cinesi già da tempo avevano messo in guardia Pechino sulla fattibilità finanziaria ed economica degli accordi Bri. Alcuni di questi banchieri erano così preoccupati che hanno insistito che Pechino applicasse a diversi prestiti l’etichetta di «politicamente designati» per chiarire che la decisione di concedere prestiti venisse dal governo cinese e non dai dirigenti delle banche. I funzionari hanno esercitato pressioni sui banchieri affinché evitassero qualsiasi riferimento a prestiti inesigibili o falliti. Invece, le banche sono state incoraggiate a tenere a galla i mutuatari estendendo la scadenza dei prestiti, cosa che nel gergo bancario viene cinicamente definita «estendere e fingere».

Pechino ha rifiutato di cooperare con gli sforzi occidentali per una rinegoziazione dei prestiti problematici. Senza dubbio la leadership cinese voleva evitare l’imbarazzante ammissione che i prestiti Bri avessero problemi, ma il rifiuto della cooperazione avrebbe anche anteposto il rimborso alla Cina rispetto ad altri nel caso in cui il fallimento fosse diventato inevitabile.

Ora che anche le banche statali cinesi si trovano ad affrontare massicci default da parte di promotori immobiliari nazionali, come Evergrande, Pechino si è resa conto che la Bri è forse un peso insostenibile tanto per la Cina quanto lo è per gli Stati clienti. In passato, quando l’economia cinese cresceva a passi da gigante, Pechino avrebbe potuto coprire i default con le proprie risorse, ma non è più così.

Di conseguenza, Pechino è diventata molto più aperta ai colloqui sulla ristrutturazione del debito. Sono già iniziati i negoziati tra Pechino e Ciad, Etiopia e Zambia. In effetti, le autorità cinesi si sono unite a gruppi internazionali, come il Club di Parigi, per elaborare quello che viene chiamato un «quadro comune» per gestire questi prestiti sovrani, che facciano parte o meno della Bri. Xi ha certamente cambiato la sua retorica. Ora descrive la Bri come «sempre più complessa» e bisognosa di controlli dei rischi e di cooperazione più forti: una vera sconfitta.

Il potenziale ritiro dell’Italia non solo crea cattive prospettive a causa dell’importanza di quell’economia, ma evidenzia anche tutte le difficoltà che circondano la Bri per la Cina e i suoi Stati clienti. Certamente non è più considerato il «progetto del secolo», né a Pechino né altrove. Gli imperativi politici e diplomatici manterranno in vita il progetto per qualche tempo. Ma la Bri sembra destinata a ridursi, senza dubbio per la gioia dei banchieri cinesi e del Ministero delle Finanze, ma non di Xi.

 

L’autore dell’articolo, Milton Ezrati, è un redattore collaboratore di The National Interest, un’affiliata del Center for the Study of Human Capital della University at Buffalo (Suny), nonché capo economista di Vested, una società di comunicazioni con sede a New York. Prima di entrare in Vested, ha lavorato come capo stratega di mercato ed economista per Lord, Abbett & Co. Scrive anche spesso per City Journal e scrive regolarmente blog per Forbes. Il suo ultimo libro è «Trenta domani: i prossimi tre decenni di globalizzazione, demografia e come vivremo».

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente quelle di Epoch Times

Articolo in inglese: China’s Belt and Road Suffers Another Setback

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