Il vero «secolo di umiliazione» della Cina

Di Leo Timm

Studiosi e appassionati di storia cinese hanno familiarità con l’espressione «secolo di umiliazione», che si riferisce alla lunga catena di crisi che il Paese subì durante il suo ingresso nell’era moderna a partire dalla metà del XIX secolo.

Dalle guerre dell’oppio combattute e perse contro la Gran Bretagna e la Francia, ai milioni di morti della ribellione dei Taiping e dell’invasione giapponese nella seconda guerra mondiale, la Cina non sembrava mai potersi prendere una pausa. Il dominio imperiale cedette allora il passo alla Repubblica di Cina, che, messa a dura prova dalla moltitudine di crisi che doveva affrontare, fu infine cacciata dal territorio continentale asiatico dal Partito Comunista Cinese (Pcc).

Oggi, il «secolo dell’umiliazione» rimane un motivo centrale nella propaganda del Pcc, che giustifica la sua leadership e il suo dominio assoluto sulla nazione cinese. Mentre il Partito celebra il centesimo anno dalla sua fondazione, la narrazione presentata è che le dottrine di Marx, Lenin, Mao e altri leader comunisti hanno permesso alla Cina di superare «difficoltà scoraggianti», rendendo possibile la sua «riunificazione e il rinnovamento nazionale».

In realtà, né il comunismo né il Partito Comunista giocarono un ruolo positivo nelle ore buie della Cina. E una volta al potere, il Pcc ha imposto un regime totalitario non solo responsabile del maggior numero di morti di qualsiasi tirannia nella storia, ma che anche cerca di distruggere le basi spirituali stessa della civiltà cinese, con la sua ideologia atea di lotta.

Dalle tendenze intellettuali di sinistra radicale all’inizio del XX secolo che denigravano tutta la Cina antica come un esempio di «feudalesimo» arretrato, all’attuale adulterazione del patrimonio nazionale cinese con il «gene rosso», il Pcc e i suoi seguaci non hanno mai smesso di sostituire la cultura tradizionale con una perniciosa cultura del Partito Comunista. Nel corso dei secoli, nessun invasore straniero ha così completamente denigrato gli insegnamenti dei saggi, represso l’espressione accademica o aggredito l’istituzione familiare, come ha fatto il Pcc. Nessuna battuta d’arresto affrontata dal popolo cinese nel suo lanciarsi nella modernità può essere paragonata al vero secolo di umiliazione della Cina: i 100 anni di storia del Partito Comunista.

Quadri del Partito Comunista appendono un cartello al collo di un uomo cinese durante la Rivoluzione Culturale nel 1966. Le parole sul cartello indicano il nome dell’uomo e lo accusano di essere un membro della «classe nera». (Dominio pubblico)

Un’insurrezione sostenuta dall’estero

Una delle tattiche preferite del Partito Comunista è quella di affermare che i suoi avversari siano «anti-cinesi» o sostenuti da «forze straniere», ma lo stesso Pcc era formato da un piccolo gruppo di persone di sinistra che disprezzavano la cultura e la storia della Cina, ed era sostenuto dai fondi dell’Ufficio dell’Estremo Oriente del Comintern, istituito dalla Russia sovietica nel 1920.

Mentre i bolscevichi di Lenin commettevano atrocità da far rizzare i capelli durante la guerra civile russa, in Cina erano in fermento delle nuove tendenze intellettuali, in quanto una nuova generazione che ebbe accesso all’istruzione occidentale diffuse l’interesse in una varietà di campi, dalla tecnologia e dalla medicina allo Stato di diritto.

Tuttavia, le ripetute sconfitte militari per mano delle potenze occidentali e del Giappone, così come gli schiaccianti «trattati iniqui» che ne seguirono, portarono molti a chiedersi se ci fosse una causa più profonda per la debolezza della Cina.

Il rovesciamento della dinastia Manchu Qing e la sua sostituzione con la Repubblica di Cina (Roc) non cambiarono immediatamente le sorti del Paese, e la stessa Roc ebbe degli inizi dubbi, con uomini forti regionali che competevano per il controllo delle principali istituzioni del governo cinese.

L’anno 1919 vide il movimento del 4 maggio, una serie di proteste studentesche e rivolte a Pechino, allora capitale della nascente repubblica cinese. Al centro del movimento, alimentato dalla rabbia popolare per il bullismo subito dalla Cina nei colloqui di Versailles del dopoguerra, c’era Li Dazhao, uno dei primi comunisti di spicco e docente presso la prestigiosa Università di Pechino. Li era accompagnato da un piccolo gruppo di studiosi che la pensavano allo stesso modo, incluso l’allora assistente di biblioteca Mao Zedong.

Li ricevette finanziamenti e sostegno dai bolscevichi, sostenendo a sua volta le loro politiche. Insieme a un altro eminente marxista, Chen Duxiu, lavorarono con il Comintern per formare una rete comunista nazionale. Li fu un leader del Movimento del 4 maggio, mentre Chen guidò il precedente Movimento Nuova Cultura, che portò le dure critiche alla vecchia Cina nella società principale.

La maggior parte delle proposte suggeriva alla Cina di imparare dalla cultura occidentale e di adottare aspetti adeguati per la modernizzazione nazionale, ma il Movimento Nuova Cultura richiedeva un cambiamento rivoluzionario. Per fare questo, la cultura tradizionale cinese doveva essere sostituita.

Lo scrittore Lu Xun, i cui libri sono ancora obbligatori da leggere memorizzare nelle scuole cinesi, ha denigrato l’istruzione tradizionale cinese e l’ordine sociale. In Diario di un pazzo ha riassunto tutto il passato del suo Paese con il termine «chi ren» o «cannibalismo». Mao Zedong avrebbe poi lodato Lu come il «capo generale della rivoluzione culturale cinese».

Prefigurando la semplificazione dei caratteri cinesi operata dal Pcc, il linguista di sinistra Qian Xuantong scrisse che la scrittura cinese promuoveva «modi di pensiero infantili, ingenui e barbari». Propose quindi che i caratteri cinesi fossero aboliti del tutto, uno sforzo che il Partito Comunista in seguito tentò, dovendo però poi rinunciarvi per ragioni di fattibilità.

Dopo essere salito alla ribalta nei circoli intellettuali cinesi, il Pcc si è mosso per infiltrarsi nel movimento nazionalista cinese, usando la tattica del «fronte unico» introdotta dai bolscevichi russi.

Approfittare della crisi nazionale per prendere il potere

Durante gli anni ’20, in cambio di consiglieri sovietici e aiuti militari, il Partito Nazionalista (Kuomintang) guidato dal padre fondatore della Roc, Sun Yat-sen, aveva permesso ai comunisti di unirsi al partito. Questo aiutò i nazionalisti a vincere battaglie contro i signori della guerra e a unificare il Paese, ma seminò i semi del disastro.

Il Primo Fronte Unito è terminato nel 1927, quando il successore di Sun Chiang Kai-shek, lanciò un’epurazione dal Pcc perché aveva minato la spedizione settentrionale del Kuomintang a Pechino.

Tuttavia, diversi anni di campagne di crescente successo da parte degli eserciti di Chiang contro i ribelli comunisti vennero interrotti: nel 1931, il Giappone imperiale invase le tre province della Manciuria nel nord-est della Cina, stimolando un’ondata nazionale di sentimento patriottico. I propagandisti del Pcc colsero al volo l’opportunità, con i loro portavoce che diffondevano lo slogan «I cinesi non combattano i cinesi». Nel 1936, uno dei generali di Chiang organizzò un colpo di Stato contro di lui e lo costrinse ad entrare in un Secondo Fronte Unito con il Pcc.

Durante il periodo di guerra totale con il Giappone, il Pcc non intraprese quasi nessuna offensiva contro l’invasore, mentre il Kuomintang sacrificò milioni di uomini, comprese le sue divisioni più moderne, per guadagnare tempo per una ritirata ordinata nell’interno cinese.

Alla fine della seconda guerra mondiale, la Cina era membro del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ed aveva recuperato Taiwan (l’isola era stata conquistata dal Giappone nel 1895), annullando quasi tutti i «trattati ineguali» e ponendo fine al «secolo di umiliazione».

Ma la propaganda del Pcc fino ad oggi ignora o minimizza il ruolo fondamentale svolto dal Kuomintang e dai suoi alleati (compresi gli Stati Uniti) nell’aiutare la Cina a sopravvivere alla Seconda Guerra Mondiale. Ai cinesi del continente viene insegnato a chiamare la continua guerra civile del 1946-1949 la «guerra di liberazione» e la Repubblica Popolare Cinese (Rpc) istituita nell’ottobre 1949 come la «nuova Cina».

Legioni di troll cinesi, celebrano la guerra dell’esercito comunista cinese in Corea come una «vittoria» contro l’imperialismo straniero, nonostante il conflitto sia stato iniziato dal nord comunista.

Alla fine del 1966 per le strade di Pechino viene esposto un poster su come affrontare i cosiddetti «nemici del popolo» durante la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria. (Jean Vincent/Afp/Getty Images)

Inganno, malizia, lotta

I Nove Commentari sul Partito Comunista, pubblicati da Epoch Times nel 2004, riassumono la natura del Pcc con la triade «inganno, malizia e lotta». Per quanto il Partito cambi colore o la sua propaganda, non abbandona mai la sua dottrina marxista-leninista, e mantiene lo statuto sacrosanto del materialismo ateo e dell’organizzazione totalitaria del Partito stesso.

Queste dottrine sono diametralmente opposte ai principi della cultura tradizionale cinese, che sono radicati nelle religioni del confucianesimo, del buddismo e del taoismo.

La spiritualità nativa della Cina è probabilmente radicata nel taoismo, chiamato riverentemente ‘la dottrina dell’Imperatore Giallo e di Lao Zi’. Imparando dal leggendario sovrano che si crede abbia fondato il primo Stato cinese 5000 anni fa, gli imperatori che hanno seguito questi principi hanno enfatizzato l’importanza di un governo con un numero moderato di leggi e regole e una tassazione leggera. Il taoismo è incentrato sulla doppia interazione di yin e yang, che dà equilibrio a tutti i fenomeni nell’universo.

Il confucianesimo e altre antiche scuole di pensiero si ispirarono alla comprensione naturalistica del mondo da parte del taoismo, dando origine al forte rispetto cinese per gli antenati, la famiglia e le cinque virtù di benevolenza, rettitudine, rispetto dei rituali, saggezza e integrità. Sebbene una dinastia imperiale potesse prendere il sopravvento attraverso la ribellione armata, una volta al potere si sforzava di aderire alla morale tradizionale. Anche Sun Zi, autore de «L’Arte della Guerra», ha sottolineato che «la Legge Morale» era il fattore più importante nel determinare la vittoria in battaglia.

Il buddismo, impartito alla Cina e al resto dell’Asia orientale dai monaci indiani, ha dato ai cinesi un maggiore rispetto per la vita e ha ispirato molti a perseguire la perfezione spirituale e la liberazione dagli attaccamenti del mondo materiale. Durante la dinastia Tang, che abbracciò la nuova religione, la corte imperiale ricevette studiosi e sudditi da tutta l’Eurasia.

Il pensiero marxista, nella sua confezione originale come teoria economica o in altre forme, sostiene che tutta la storia umana non sia altro che lotta di classe darwinista. Mao disse che la rivoluzione è un atto di violenza in cui una classe ne rovescia un’altra.

È prevedibile che il Pcc si sia opposto alla cultura e alla moralità tradizionali sin dalla sua fondazione. Dal Movimento per la Nuova Cultura, in seguito venne la «rettifica» di tipo settario del pensiero non ortodosso tra il 1942 e il 1945 a Yan’an. Ciò è stato ripetuto con il massacro di milioni di «proprietari terrieri» e «ricchi agricoltori», fino alla Rivoluzione Culturale, che ha visto la distruzione totale dei «quattro vecchi» – manufatti inestimabili della storia cinese, per non parlare delle relazioni armoniose che avevano governato società per millenni.

La natura del Partito è contro la natura umana

Come descritto nel Commentario Cinque nei «Nove Commentari», talvolta certi singoli membri del Partito Comunista o persino leader possono essere motivati ​​dalla compassione. Ad esempio, nel 1989, il segretario generale riformista del Pcc, Zhao Ziyang, ha espresso simpatia per gli studenti in protesta a Piazza Tiananmen. Tuttavia, è stato rapidamente superato in astuzia dai sostenitori della linea dura che sostenevano che il potere del Partito fosse a rischio. Il leader comunista Deng Xiaoping ha dichiarato le proteste una rivolta violenta e migliaia di persone sono state uccise, mentre soldati e carri armati ripulivano le strade di Pechino.

Nel 1999, Jiang Zemin, che è stato promosso per sostituire Zhao a causa della posizione dura e inflessibile del primo sulle proteste a Shanghai (Jiang era il capo del Partito della città), ha affrontato una situazione opposta quando ha deciso di vietare la pratica spirituale del Falun Gong, una disciplina di qigong della scuola del Buddha, conosciuta anche come Falun Dafa. Il Falun Gong aveva guadagnato una popolarità enorme nel corso degli anni ’90 dalla sua fondazione nel 1992, con una stima di 70-100 milioni di aderenti alla pratica nel 1999.

Tuttavia, Jiang e i suoi più stretti sostenitori hanno visto il Falun Gong, (che insegna Verità, Compassione e Tolleranza e una visione del mondo tradizionale), come una minaccia alla governance del Partito. Anche se gli altri sei membri del Comitato Permanente del Politburo del Pcc erano contrari o indecisi riguardo alla richiesta di Jiang di una repressione nazionale della pratica, sono stati intimiditi quando Jiang ha sostenuto che il fallimento «nel sconfiggere» il Falun Gong, avrebbe reso il Partito «lo zimbello» del marxismo avrebbe portato alla «distruzione del Partito e del Paese».

Poiché Jiang ha seguito il principio non detto del Partito Comunista, è stato in grado di superare il disaccordo all’interno dell’organizzazione, mentre Zhao, nonostante i suoi successi nella tanto decantata «riforma e apertura» degli anni ’80 e gli sforzi per portare lo Stato di diritto in Cina, è stato estromesso senza tante cerimonie e messo agli arresti domiciliari fino alla sua morte nel 2005.

Gli effetti deleteri del sottostante marxismo-leninismo del Pcc sono stati ignorati dalla comunità internazionale per anni e rimangono ancora poco compresi. Gli osservatori occidentali spesso criticano la Cina definendola «ultranazionalista» o «autoritaria», mentre sperano in un impegno positivo con i leader «moderati» del Pcc.

Il rafforzamento del tecno-totalitarismo del Partito negli ultimi decenni avrebbe dovuto infrangere tali illusioni. Finché il Partito Comunista guiderà la Cina, nessun cambiamento fondamentale sarà possibile. Un secolo di regime comunista non solo ha portato alla Cina una seconda era di umiliazione, ma minaccia la libertà in tutto il mondo.

 

Leo Timm è un ex giornalista cinese, collaboratore di Epoch Times e scrive di politica e attualità cinesi.

Le opinioni espresse in quest’articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente quelle di Epoch Times.

Articolo in inglese: China’s Real ‘Century of Humiliation’

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