Il 16 novembre quattro unità navali armate della Guardia Costiera cinese sono penetrate nelle acque poste sotto l’amministrazione del Giappone intorno alle isole Senkaku, aumentando la già alta tensione nel Mar Cinese orientale. Il regime comunista cinese rivendica la sovranità sulle Senkaku, che identifica come Diaoyu, mentre Tokyo mantiene pieno controllo amministrativo su questi isolotti disabitati e considera l’incursione cinese una violazione delle proprie acque territoriali.
Secondo quanto riferito dalla Guardia Costiera giapponese, intorno alle 10:15 del mattino le quattro unità cinesi hanno superato il limite delle dodici miglia nautiche, per poi essere affrontate da «un contingente superiore» di navi nipponiche e abbandonare l’area dopo circa due ore. Pechino ha giustificato l’operazione su Weibo, parlando di una «missione per la tutela dei diritti svolta dalla Guardia Costiera della Cina conformemente alla legge». Il Segretario generale del Gabinetto giapponese, Minoru Kihara, ha definito l’intrusione «una violazione del diritto internazionale» e «inaccettabile», annunciando la presentazione di una protesta diplomatica.
Tale episodio è sopraggiunto a pochi giorni di distanza dagli avvertimenti della Prima Ministra Takaichi, secondo cui un attacco cinese a Taiwan costituirebbe «una minaccia esistenziale» tale da poter giustificare una reazione armata da parte del Giappone. La replica della diplomazia cinese non si è fatta attendere: il console generale della Cina a Osaka, Xue Jian, ha pubblicato sui social un messaggio dai toni violenti: «Quel collo sudicio che si è intromesso da solo — non avrò altra scelta che mozzarlo senza alcuna esitazione. Siete pronti a questo?» Il post è stato successivamente rimosso, ma Pechino ha comunque convocato, per la prima volta da oltre due anni, l’ambasciatore giapponese.
L’apparato propagandistico di Pechino ha intensificato la pressione. Numerosi commenti comparsi sull’organo ufficiale delle forze armate del regime, hanno attaccato Takaichi per aver affermato che una crisi su Taiwan rappresenterebbe per il Giappone una «situazione tale da minacciarne la sopravvivenza». Secondo il quotidiano militare, tale posizione costituirebbe una violazione del «principio dell’unica Cina», interferendo negli affari interni cinesi e mettendo in discussione i «supremi interessi» della Cina. Le intenzioni della leader nipponica sono state definite «di una gravità estrema», mentre le sue parole sono state bollate come «particolarmente esecrabili» e Tokyo è stata avvertita di dover rivedere la propria posizione, pena l’assunzione «di tutte le conseguenze». Gli editorialisti hanno additato Takaichi quale primo premier giapponese, dal 1945, ad affermare che «un’emergenza a Taiwan è un’emergenza per il Giappone», qualificando la dichiarazione come una minaccia militare rivolta a Pechino.
Il Partito comunista cinese, del resto, per bocca del Segretario generale Xi Jinping, ha più volte ribadito la volontà di riunificare Taiwan alla “madrepatria”, «anche con la forza, se necessario». Per parte sua, l’ambasciatore statunitense in Giappone, George Glass, ha riconfermato il sostegno di Washington a Tokyo, affermando che «l’alleanza Stati Uniti–Giappone resta determinata a difendere la pace e la stabilità attraverso lo Stretto di Taiwan» e che gli Stati Uniti «si oppongono fermamente a qualsiasi tentativo unilaterale di modificare lo statu quo nell’area tramite la forza o la coercizione».
Il quotidiano militare cinese ha inoltre rimarcato come il Giappone stia rivedendo i documenti sulla sicurezza, ampliando la propria capacità offensiva e trasformandosi in uno «Stato pronto alla guerra». Il giornale controllato dai militari ha avvertito che un eventuale «intervento militare giapponese nello Stretto di Taiwan» determinerebbe una «risposta decisa e diretta» di Pechino, che eserciterebbe il proprio diritto di autodifesa.
Altri commenti hanno ribadito che un simile intervento «rischierebbe di trasformare l’intero Paese in un campo di battaglia», accusando Tokyo di nutrire «ambizioni predatorie» per interferire negli affari altrui tramite la forza. Un account vicino al quotidiano ha ammonito che il Giappone «pagherà caro», mentre il ministero della Difesa cinese in modo autonomo ha affermato che Tokyo «subirà una disfatta schiacciante».
Per gli Stati Uniti la coincidenza fra l’incursione della Guardia Costiera, le dichiarazioni di Takaichi e le minacce del giornale delle forze armate cinesi è densa di rilevanza strategica. Il Giappone ospita la maggiore presenza militare americana fuori dal continente statunitense, e le sue basi diverrebbero immediato obiettivo in caso di offensiva cinese su Taiwan. In virtù del trattato di sicurezza Stati Uniti–Giappone, Tokyo è obbligata a difendere le forze americane sul proprio territorio. Tradizionalmente i capi di governo giapponesi hanno evitato ogni riferimento a un potenziale intervento armato su Taiwan, ma le recenti dichiarazioni di Takaichi si collocano in una zona grigia di escalation.
Takaichi non ha formalmente abbandonato la cosiddetta “ambiguità strategica” né si è impegnata a difendere l’isola. Il Giappone riconosce ancora la “politica dell’unica Cina” e non riconosce Taiwan come Stato indipendente. Ciò nondimeno, la premier si è discostata dai predecessori dichiarando pubblicamente che alcune azioni armate di Pechino nei pressi di Taiwan potrebbero costituire una «situazione tale da minacciare la sopravvivenza del Giappone». Una posizione che richiama il monito lanciato nel 2021 dall’allora primo ministro Abe: «un’emergenza a Taiwan è un’emergenza per il Giappone», affermazione che a sua volta provocò la dura reazione di Pechino.
La legge sulla sicurezza, entrata in vigore nel 2015, consente di proclamare una situazione di minaccia solo quando un attacco subìto da uno Stato «in stretto rapporto con il Giappone» metta in pericolo l’esistenza stessa del paese. Takaichi sostiene che un blocco o una manovra militare cinese potrebbero compromettere le rotte marittime nipponiche, minacciare il territorio nazionale e porre in pericolo le forze statunitensi stanziate nel Paese, offrendole così un fondamento legale per la difesa, ma non impegnandola formalmente nella difesa di Taiwan.
Questo cambiamento ha comunque un peso non indifferente per gli Stati Uniti. Qualora Tokyo attivasse le proprie Forze armate, le basi americane sul suolo giapponese entrerebbero immediatamente nel mirino e ogni rappresaglia cinese potrebbe attivare le garanzie previste dal trattato di sicurezza. Le isole meridionali giapponesi distano solo 110 chilometri da Taiwan, le rotte vitali per l’economia nipponica attraversano la zona contesa, e le forze Usa a Okinawa si troverebbero esposte in pieno potenziale scenario di conflitto. La minaccia del quotidiano regime secondo cui «il Giappone rischia di trasformare l’intero Paese in campo di battaglia» riguarda chiaramente anche le installazioni americane.
L’incursione della Guardia Costiera cinese, con mezzi dotati di mitragliatrici montate sui ponti, sembra inoltre concepita come una prova di determinazione, un test sul grado di prontezza all’escalation. Pechino dimostra così di poter esercitare pressioni sul Giappone a livello militare, diplomatico ed economico. All’indomani dello scontro diplomatico, le autorità cinesi hanno invitato i propri cittadini a evitare viaggi in Giappone, mentre le compagnie aeree hanno offerto rimborsi integrali e cambi gratuiti; un preludio a possibili ritorsioni di più vasta portata.
L’amministrazione Trump ha sottolineato con fermezza il proprio schema di risposta. In un’intervista televisiva, il presidente Donald Trump ha dichiarato che Xi Jinping gli ha assicurato che non ricorrerà a un’azione militare contro Taiwan «in ragione delle conseguenze», pur senza specificare quali sarebbero le contromisure previste dagli Stati Uniti.
Nel mese di febbraio, Stati Uniti e Giappone hanno diramato un comunicato congiunto in cui Washington riafferma l’«incrollabile impegno» alla difesa del Giappone, incluse tutte le capacità disponibili, compreso il potenziale nucleare. Nell’ottobre scorso, Trump ha promesso a Takaichi ogni supporto «ogniqualvolta necessario». L’amministrazione Usa ha infine ribadito che il trattato di sicurezza copre integralmente anche le isole Senkaku, ribadendo la netta opposizione a ogni tentativo di minare il controllo esercitato da Tokyo su di esse.
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