Ieri le delegazioni di Israele e Hamas hanno tenuto in Egitto la loro prima giornata di negoziati indiretti sul piano di pace americano per fermare la guerra a Gaza. I negoziati sono iniziati nella località turistica di Sharm El-Sheikh, sul Mar Rosso, con la presenza di delegazioni di Egitto, Stati Uniti e Qatar in veste di mediatori. Oggi, martedì 7, si terrà la seconda giornata di trattative.
I negoziati si sono aperti alla vigilia del secondo anniversario dell’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023, evento scatenante della guerra, in cui i miliziani hanno barbaramente massacrato 1.200 persone (in maggioranza civili) e preso in ostaggio altre 251 persone. Il 7 ottobre 2023, in Israele è considerato il giorno più orribile per il popolo ebraico dai tempi dell’Olocausto nazista.
«Le parti stanno esaminando gli elenchi sia degli ostaggi israeliani sia dei prigionieri politici che saranno liberati», ha dichiarato ieri la portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt.
La delegazione israeliana comprende funzionari dei servizi di intelligence Mossad e Shin Bet, il consigliere di politica estera di Netanyahu Ophir Falk e il coordinatore per gli ostaggi Gal Hirsch. Il capo negoziatore, ministro per gli Affari strategici Ron Dermer, dovrebbe unirsi ai colloqui in base all’evoluzione delle trattative, secondo tre funzionari israeliani citati da Reuters.
La delegazione di Hamas è guidata dall’ex leader di Gaza in esilio, Khalil Al-Hayya, sopravvissuto a un raid israeliano che, un mese fa, ha ucciso suo figlio a Doha.
Gli Stati Uniti sono rappresentati dall’inviato speciale Steve Witkoff e da Jared Kushner, genero del presidente e uomo di solide relazioni in Medio Oriente.
Uno dei nodi più difficili sarà probabilmente la richiesta israeliana, ripresa nel piano di Trump, che Hamas deponga le armi, ha riferito una fonte del movimento a Reuters. Il gruppo insiste che non disarmerà a meno che Israele non ponga fine all’occupazione e venga istituito uno Stato palestinese.
In una dichiarazione per l’anniversario del 7 ottobre, il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha affermato che il piano di Trump «rappresenta un’opportunità da cogliere per mettere fine a questo tragico conflitto»
Israele e Hamas hanno entrambi approvato i principi generali del piano di pace, che prevede la cessazione dei combattimenti, la liberazione degli ostaggi e l’invio massiccio di aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Altre parti della proposta di pace – totale smilitarizzazione di Gaza e resa incondizionata di Hamas – sono rimaste fori dal tavolo perché tatticamente ignorate da Hamas. Naturalmente, per Israele in questo momento nulla è più importante del rilascio degli ostaggi che da ormai due anni sono prigionieri dei terroristi di Hamas.
Il piano, proposto dal presidente degli Stati Uniti in coordinamento col governo israeliano, gode anche del sostegno di Stati arabi e occidentali. Donald Trump ieri ha sollecitato uno svolgimento rapido delle trattative verso un accordo definitivo, che Washington considera il punto più vicino finora al termine del conflitto iniziato due anni fa. Ma ha anche ribadito che Hamas deve abbandonare definitivamente Gaza.
L’amministrazione Trump è l’unico governo al mondo che finora si sta dimostrando capace di portare a azioni reali e concrete che vadano della direzione della fine della guerra a Gaza e della risoluzione della questione palestinese. La guerra a Gaza – insieme a quella in Ucraina – non solo rappresenta il maggiore investimento in termini di prestigio internazionale di Donald Trump quale pacere (invece che “guerrafondaio”, come numerosi suoi predecessori alla Casa Bianca sono stati accusati, spesso a ragione, di essere): Gaza e l’Ucraina sono due polveriere che potrebbero esplodere da un attimo all’altro, considerato il ruolo del regime cinese, che fomenta il conflitto e destabilizza sia l’area balcanica che Medio Oriente. Raffreddare queste due zone caldissime ormai per Trump è diventato un imperativo categorico, anche in considerazione che da un momento all’altro il regime cinese potrebbe invadere Taiwan.
«Abbiamo davvero buone possibilità» ha detto ieri The Donald con l’ottimismo (a volte eccessivo) che lo contraddistingue. «Penso proprio che riusciremo a trovare un accordo» ha dichiarato ai giornalisti alla Casa Bianca, mentre a Sharm El Sheik si svolgevano i negoziati.
Ma entrambe le fazioni vogliono chiarimenti e garanzie sui punti cruciali che hanno fatto naufragare precedenti tentativi. Trump ha “costretto” Israele a sospendere le operazioni militari a Gaza durante i colloqui.
Quanto a Netanyahu, il primo ministro israeliano si è dimostrato molto più cauto: in un’intervista pubblicata da Euronews, ha affermato di non poter garantire che Hamas accetterà il rilascio di tutti gli ostaggi (vivi e morti) finché l’esercito israeliano rimarrà nella Striscia di Gaza: «io penso sia possibile e spero che accada, ma non posso garantirlo. Se non accadrà, il presidente Trump ha affermato che sosterrà pienamente Israele quando colpirà Hamas» ha detto il capo del governo israeliano. Chiudendo poi con una punta di ottimismo: «noi speriamo di poter porre fine a questa situazione nel modo più semplice e non in quello più difficile».
Sul fronte opposto, Hamas ha smentito la notizia del canale saudita Al-Arabiya secondo cui avrebbe già iniziato a recuperare i cadaveri degli ostaggi morti; e ha anche negato l’affermazione secondo cui avrebbe informato gli Stati Uniti di essere d’accordo a consegnare le armi: «Sottolineiamo che la notizia relativa alla consegna delle armi del movimento è fuorviante, infondata e falsa» ha dichiarato una fonte dell’organizzazione terroristica all’emittente qatariota Al-Arabi Al-Jadeed.
Hamas ha illustrato la propria posizione sulla liberazione degli ostaggi e sulla portata e tempistica del ritiro israeliano da Gaza. Il movimento islamista ha inoltre espresso dubbi sulla disponibilità di Israele a impegnarsi per un cessate il fuoco permanente e un ritiro completo.
Una fonte militare israeliana sentita da Epoch Israele sostiene che i colloqui si concentreranno inizialmente solo sulla liberazione degli ostaggi, concedendo a Hamas alcuni giorni per completare tale fase. Ma che Israele non intenda ritirare le truppe oltre la cosiddetta «linea gialla» a Gaza — confine previsto per un iniziale arretramento sotto il piano Trump — che funzionerebbe come “zona cuscinetto”; ulteriori ritiri sarebbero subordinati al rispetto di precise condizioni da parte di Hamas.
Benché Trump spinga per un accordo raggiunto in tempi rapidi, secondo una fonte informata sui negoziati citata da Reuters, questa tornata di discussioni richiederà diversi giorni. E un altro funzionario e una fonte palestinese hanno sottolineato come l’obiettivo di Trump di ottenere il ritorno degli ostaggi entro 72 ore possa risultare irrealistico per i prigionieri deceduti, visto che i corpi devono essere localizzati e recuperati da luoghi diversi.
Inoltre, alti ufficiali israeliani ricordano che Hamas è un’organizzazione jihadista che mette inganni e menzogne alla base della propria strategia: la preoccupazione principale a Gerusalemme è che l’organizzazione terroristica ricorra alla procrastinazione e cerchi di legare i colloqui attuali, che dovrebbero essere puramente tecnici, ad altri punti del piano Trump, come il disarmo di Hamas e il ritiro dell’esercito israeliano dalla Striscia di Gaza.
Un altro ostacolo che si prevede sorgerà nei colloqui, è la richiesta di Hamas di rilasciare dalle carceri israeliane centinaia di miliziani simbolo del terrorismo palestinese – come Marwan Barghouti, l’artefice della Seconda Intifada – e diversi capi dell’ala militare di Hamas, nonché i responsabili degli attacchi incendiari nelle città israeliane durante la Seconda Intifada. Hamas chiede persino il rilascio dei terroristi responsabili dei massacri 7 ottobre. Secondo fonti israeliane, Gerusalemme si oppone ma l’America potrebbe fare pressione affinché Netanyahu alla fine accetti.