La Secca di Scarborough “riserva naturale” è un autogol del regime cinese

di Redazione ETI/Jarvis Lim
19 Settembre 2025 12:35 Aggiornato: 19 Settembre 2025 18:50

Il regime cinese sta attaccando con cannoni ad acqua le navi in transito nel Mare Cinese Meridionale, in un’escalation di aggressività maldestramente spacciata per battaglia ambientalista.
Una nave filippina è stata colpita da cannoni a acqua della guardia costiera cinese il 16 settembre, nei pressi della contesa Secca di Scarborough nel Mare Cinese Meridionale. L’attacco ha causato «danni significativi» a un peschereccio, ha scritto Jay Tarriela, portavoce della guardia costiera filippina, in un post su LinkedIn, aggiungendo che un membro dell’equipaggio è rimasto ferito da schegge di vetro provocate dal getto d’acqua. Dopo anni di minacce e azioni intimidatorie, evidentemente il regime cinese sta iniziando a passare progressivamente alle vie di fatto.

La guardia costiera cinese ha difeso l’aggressione attraverso il proprio portavoce, che ha affermato che le sue unità navali hanno adottato «misure di controllo» contro imbarcazioni «governative» filippine accusate di essere entrate in acque territoriali cinesi. Nella realtà, si tratta di acque di pertinenza filippina di cui il Partito comunista cinese vuole appropriarsi, nell’ambito della sua espansione verso l’area dell’Indo-Pacifico. Il tribunale della Corte permanente di arbitrato all’Aia ha già infatti stabilito, nel 2016, che le rivendicazioni della Repubblica Popolare Cinese nel Mare Cinese Meridionale – inclusa quella sulla cosiddetta “Linea dei nove tratti” – siano prive di ogni legittimità e ha dichiarato illegali le azioni cinesi nelle acque filippine.

Il salto di qualità dell’aggressività cinese fa parte dell’approccio multifattoriale di Pechino, che alterna tattiche legali a colpi di mano e che vede ora l’inserimento di un’improbabile retorica ambientalista. Il 9 settembre, il regime cinese ha approvato un piano per istituire una “riserva naturale” nella Secca di Scarborough, dicendo di voler proteggere l’ecosistema e mantenere «diversità, stabilità e sostenibilità». Affermazioni che oltrepassano la soglia del ridicolo, considerando che la Cina è la nazione che immette nell’ambiente più inquinamento di qualunque altra al mondo.
Dietro il paravento dell’ambientalismo, secondo gli osservatori, d’ora in avanti il regime cinese probabilmente si arrogherà il diritto di affermare la propria presunta sovranità territoriale, di fatto ribaltando la colpa del conflitto su Manila, mentre – come il resto del mondo sa – è proprio la Cina a essere responsabile di danni ambientali irreparabili nel Mare Cinese Meridionale, attraverso la pesca non regolamentata – e non dichiarata – e la costruzione di isole artificiali.

Hunter Marston, ricercatore associato presso il Center for strategic and international studies (Csis) di Washington, sostiene che i recenti tentativi del Partito comunista cinese di appropriarsi di una parte del territorio filippino dimostrino il potenziale distruttivo del regime cinese nei confronti del diritto internazionale: «le implicazioni dell’occupazione cinese del banco di Scarborough, che rientra nella zona economica esclusiva delle Filippine, sono piuttosto significative, perché mostrano come la Cina abbia la capacità attiva di minare la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, di cui è firmataria». E, conferma anche Marston, il prossimo passo è l’Indo-Pacifico: «la Cina può attraversare il Pacifico e lentamente erodere la sovranità degli Stati costieri come le Filippine, minando così la capacità degli Stati Uniti di intervenire in difesa dei propri alleati».

Il 12 settembre, il ministro degli Esteri statunitense Marco Rubio ha affrontato direttamente la questione della “riserva naturale” cinese, dicendo via social: «Si tratta di un altro tentativo coercitivo per promuovere gli interessi della Cina a spese dei suoi vicini e della stabilità regionale». Mary Kay L. Carlson, ambasciatrice statunitense nelle Filippine, ha ribadito la posizione del capo della diplomazia americana il 16 settembre, dichiarando su X che gli Stati Uniti condannano le azioni aggressive della Cina nel territorio filippino e appoggiano il governo filippino nel suo «difendere i pescatori filippini e far rispettare la legge marittima per un Indo-Pacifico libero e aperto». In sintesi: nessuno crede alla “riserva naturale”: le mire imperialistiche e predatorie del regime cinese sono ormai fin troppo note.

Non solo: secondo alcuni osservatori, gli Stati Uniti potrebbero persino contrattaccare sul piano mediatico il regime cinese – che tiene molto alla sua (falsa) immagine di bontà e ragionevolezza – proprio sul terreno del diritto internazionale, sia mediante azioni diplomatiche che promuovendo proteste e comunicazioni formali, nonché in dichiarazioni pubbliche alla stampa internazionale. E secondo Hunter Marston del Csis, questa strategia di confronto diretto con Pechino, a Washington si starebbe già consolidando attraverso i pilastri centrali dell’alleanza, in particolare l’Accordo di cooperazione difensiva rafforzata, che consente alle forze armate statunitensi e filippine di addestrarsi insieme e rispondere alle crisi locali: «Gli Stati Uniti hanno trasferito attrezzature militari e fornito assistenza difensiva alle Filippine». E queste azioni, insieme alle nette prese di posizione di Washington, rappresentano l’applicazione pratica di una dottrina statunitense molto più vasta, concepita per mantenere la stabilità nel Pacifico.
In sintesi, cogliendo l’occasione delle minacce cinesi alle filippine, l’America sta ripetendo alla Cina lo stesso messaggio che ha più volte inviato dal 20 gennaio 2025: “a Washington l’aria è cambiata”.

 

 


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