Il vero male della società è il marxismo insegnato a scuola

di John Hilton-O’Brien per ET USA
15 Settembre 2025 14:23 Aggiornato: 15 Settembre 2025 14:23

Il 22 agosto, la giovane Iryna Zarutska è stata uccisa, non con una pistola, ma con un coltello. L’orrore nel video che circola online deriva meno dall’arma utilizzata che dal commento casuale dell’assassino rivolto a un passante: «Ho beccato quella ragazza bianca». Quelle parole rivelano che non si è trattato di un semplice scoppio di rabbia: indicano un quadro morale, in cui uccidere «quella ragazza bianca» era normalizzato, addirittura giustificato.
È proprio questo aspetto a rendere allarmante l’assassinio di Charlie Kirk. Alcuni vorrebbero ridurlo a un semplice «crimine con arma da fuoco». Ma Kirk non è stato preso di mira a causa di un’arma: è stato colpito per via di un’idea. La convinzione che la violenza contro avversari politici possa essere legittima.

La cultura anglofona, forgiata da secoli di conflitti, è diventata esperta nella violenza, ma anche nel canalizzarla verso fini legittimi. Shakespeare celebrava re guerrieri come Enrico V, il cui «manipolo di fratelli» combatteva ad Agincourt. Churchill, che raccolse attorno a sé la Gran Bretagna contro la Germania nazista, parlava del potere delle parole brevi, e “guerra” (war) è tra le più concise in inglese. La violenza in sé non è malvagia: il problema sorge quando è mal indirizzata o priva di disciplina.
L’impulso originario all’istruzione pubblica, nato da una rinascita dell’apprendimento classico, insisteva affinché i giovani fossero educati ad amare la verità piuttosto che le proprie fazioni. Si trattava di un autentico sforzo per orientare le passioni dei giovani cittadini verso la virtù, ovvero abitudini di eccellenza mentale e fisica. Ma questi principi sono stati in gran parte abbandonati dalle nostre scuole pubbliche. Dal «Manifesto comunista» in poi, il marxismo ha ridotto la vita umana a una lotta tra oppressori e oppressi. L’analisi di classe presenta la rivoluzione come liberazione e la violenza politica come giustizia. Il professore americano Herbert Marcuse ha reso esplicita questa logica in “Tolleranza repressiva” negli anni Sessanta: sosteneva che la tolleranza servisse solo agli oppressori, e che silenziare gli oppositori della sinistra fosse un dovere morale. Si fermò prima di invocare spargimenti di sangue, ma il suo quadro rendeva il passo verso la violenza fin troppo breve.

L’odierna politica identitaria non fa che sviluppare le conseguenze dello schema di Marcuse. La società è divisa in “oppressi e oppressori”. E si può etichettare quasi chiunque come l’oppressore: compagni di classe, avversari politici, persino i genitori vengono dipinti come nemici. La rabbia diventa virtù. La violenza politica si trasforma in giustizia. Questo aiuta a spiegare perché l’assassino di Iryna ritenga accettabile il suo gesto, e spiega anche come qualcuno possa considerare l’assassinio di Charlie Kirk non solo ammissibile, ma virtuoso.
La parte più inquietante è che questo quadro non è limitato a accademici radicali o attivisti. Viene attivamente insegnato nelle nostre scuole; è un’idea semplice, più facile da comprendere e trasmettere rispetto alla virtù, e profondamente seducente. Quando un insegnante introduce l’analisi marxista, sembra condividere un segreto. Improvvisamente, docente e allievo sono complici in qualcosa, una verità nascosta su come funziona davvero il mondo. Questa dinamica trasforma il rapporto: la gestione della classe diventa più agevole, gli studenti apprezzano lezioni che li fanno sentire astuti, addirittura eroici: “tu e io vediamo la verità, mentre il mondo là fuori è cieco o corrotto”. Ma il prezzo di questa intimità è enorme. Una volta che gli studenti aderiscono a questa dinamica di “noi contro il mondo”, diventa molto più difficile per loro ascoltare chiunque non sia dalla loro parte. Gli insegnanti diventano alleati, anche contro i genitori. È così che l’istruzione coltiva la violenza politica invece della virtù. Abbiamo visto cosa accade quando i bambini vengono cresciuti in questo modo. A Cipro, intere generazioni sono state educate a vedere i vicini come nemici. Il risultato sono stati decenni di conflitti.
Gli stessi semi vengono piantati qui, nelle nostre scuole, sotto il vessillo della presunta “equità” e del “pensiero critico”. Una volta che i giovani accettano questa visione del mondo, non vedono più gli avversari come vicini o concittadini: li vedono come nemici. E una volta avvenuto questo spostamento, la violenza politica non li sconvolge più, può essere razionalizzata e addirittura apprezzata.

La crisi che affrontiamo non riguarda le armi. L’assassino di Iryna Zarutska portava un coltello. L’attentatore di Charlie Kirk ha usato un fucile. Strumenti diversi, stessa logica: entrambi credevano che la loro violenza fosse legittima. Quello schema non viene appreso per caso: viene insegnato, viene rafforzato ogni volta che una classe divide il mondo in oppressori e oppressi, viene consolidato ogni volta che agli studenti viene detto che silenziare o punire gli oppositori equivale a fare giustizia.
Non porremo fine alla violenza politica finché non escluderemo il quadro marxista che la legittima. L’istruzione deve tornare a insegnare la virtù: amare la verità, odiare l’ingiustizia e dirigere il coraggio contro le vere minacce al bene comune. Solo allora potremo crescere una generazione pronta a difendere i propri vicini, non a distruggerli. È tempo di eliminare il marxismo dalle scuole.

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