A circa 160 chilometri a sud della costa cinese, l’isola di Taiwan vive da decenni sotto la crescente minaccia del Partito comunista cinese, che considera Taiwan una “provincia ribelle” e che provoca costantemente con incursioni aeree ed esercitazioni che l’ammiraglio americano Samuel Paparo, comandante del Comando indo-pacifico degli Stati Uniti, definisce «prove generali» di invasione. Ma a Taiwan la battaglia è già in corso: senza spargimenti di sangue ma con una tensione palpabile. Negli ultimi mesi, un movimento popolare ha preso piede nell’isola, con l’obiettivo di rimuovere decine di parlamentari di un partito accusato di tradire gli interessi nazionali a favore della Repubblica Popolare Cinese.
Il 26 luglio, due terzi dei politici contestati hanno superato un “voto di revoca”, ossia un voto finalizzato alla destituzione di uno o più parlamentari prima della scadenza naturale del termine. Il parziale fallimento dell’operazione, secondo i leader del movimento e gli analisti, evidenzia la profondità dell’infiltrazione del Partito comunista cinese nel tessuto sociale taiwanese. I parlamentari in questione appartengono al Partito del Kuomintang, noto per le sue posizioni filocinesi. Curiosamente, nonostante l’attuale vicinanza a Pechino, il Kuomintang un tempo era il principale nemico delle forze comuniste: era la fazione che aveva combattuto (e perso) la guerra civile contro i comunisti di Mao Zedong.
Il Kuomintang ha recentemente suscitato proteste popolari per una serie di decisioni controverse: tagli al bilancio della difesa, bocciatura di proposte di legge per contrastare la minaccia comunista e forzature istituzionali per estendere il proprio potere legislativo. Quando il tentativo di legalizzare questo eccesso di potere è stato bloccato dalla magistratura, la coalizione guidata dal Kuomintang ha introdotto una norma procedurale che ha di fatto paralizzato la Corte costituzionale di Taiwan.
La rabbia popolare è poi esplosa a gennaio, dopo i tagli alla difesa (che evidentemente espongono ulteriormente la Repubblica di Cina (questo il vero nome di Taiwan) all’invasione da parte della dittatura di Pechino). A quel punto Un milione e 300 mila taiwanesi hanno firmato petizioni per destituire un quinto dei parlamentari, tutti del Kuomintang, con l’obiettivo di trasferire maggiore potere al Partito progressista democratico filo-occidentale.
I promotori della revoca hanno fatto un strada tutta in salita, nel tentativo di rimuovere i boiardi del Kuomintang, tutti saldamente inchiavardati alle rispettive poltrone. Ma si è trattato ugualmente di un’azione senza precedenti nella storia di Taiwan, dove un solo parlamentare era stato revocato in passato. Sebbene la campagna sia stata definita una «sconfitta tattica», su un piano strategico rappresenta invece una vittoria, almeno secondo Miles Yu, analista e ex consigliere per la politica cinese durante il primo mandato di Trump, che parlando in un podcast ha osservato: «Portando la questione alle urne, gli elettori hanno costretto i parlamentari del Kuomintang a difendersi e a chiarire la loro posizione sulla Repubblica Popolare Cinese, cambiando il tono del dibattito». E anche Yuan Hongbing, giurista cinese in esilio, ha definito questi eventi un «risveglio» di importanza storica: «Di fronte alla tirannia e alla coercizione del regime cinese, la società taiwanese sta reagendo» combattendo in un modo che «non ha precedenti». Lo conferma la reazione del Kuomintang che poi cercato di scrollarsi di dosso l’etichetta di partito filocinese riconoscendo l’importanza di una difesa solida ma, naturalmente, sempre “nel dialogo” con la Cina continentale.
Taiwan, è un’isola relativamente piccola (grande circa metà dell’Irlanda) ma riveste un ruolo cruciale nell’economia mondiale: produce oltre il 90% dei chip più avanzati al mondo e ha una posizione di importanza strategica assoluta per le rotte dell’area indo-pacifico, considerato che lo Stretto di Taiwan è uno dei tratti di mare più trafficati del pianeta.
La Repubblica di Cina, è una nazione sovrana democratica nata da una sorta di “governo in esilio” fuggito dalla Cina continentale dopo la “rivoluzione” (in realtà più simile a colpo di Stato) comunista del 1949 capitanata da Mao Zedong. Non solo, quindi, Taiwan non ha “nulla a che vedere” col regime cinese: Taiwan è, in un certo senso, il contrario esatto – il risultato dell’opposizione – dei cinesi alla brutale dittatura del Partito comunista che ha preso il controllo della Cina continentale ormai 74 anni fa. Ma questa libertà è sempre più minacciata da Pechino. Oltre a condurre quasi quotidianamente azioni militari di disturbo ed esercitazioni a fuoco intorno a Taiwan, il regime sta intensificando una subdola strategia eversiva infiltrandone le istituzioni. Dal 2020, a Taiwan sono state incriminate ben 159 persone (di cui 95 militari, in servizio e in congedo) con l’accusa spionaggio a favore della Repubblica Popolare Cinese.
Secondo l’Ufficio per la sicurezza nazionale di Taiwan, il regime di Pechino usa la vecchia tattica del bastone e della carota – denaro e intimidazioni/minacce/ricatti – per reclutare informatori all’interno delle istituzioni della Repubblica di Cina, trasformando i funzionari di Taiwan in traditori al suo servizio. A marzo, il presidente taiwanese Lai Ching-te ha definito, senza mezzi termini, la Cina continentale una «forza ostile straniera», denunciandone la trama sovversiva per «dividere, distruggere Taiwan dall’interno».
Un sondaggio di aprile, condotto dal Consiglio per gli affari con la Cina continentale, ha rivelato che oltre il 70% di circa 1.100 intervistati ritiene che il regime cinese stia sempre più infiltrandosi nelle istituzioni di Taiwan. I cui cittadini osservano con preoccupazione lo stringersi della morsa del Partito comunista su Hong Kong, una città un tempo simbolo di libertà, finché era sotto il controllo britannico.
Per la sua posizione geografica, Taiwan è un pilastro della cosiddetta “Prima catena di isole”, una barriera naturale contro l’espansione militare del regime cinese nell’Indo-Pacifico. Secondo la gran parte degli analisti, la conquista di Taiwan sarebbe il primo passo della sfida della Repubblica Popolare Cinese agli Stati Uniti, che potrebbe facilmente degenerare in un conflitto armato tra Usa e Cina (e forse persino nella Terza guerra mondiale). Se Taiwan dovesse cadere, quindi, il resto del mondo diventerebbe molto più vulnerabile.