Quando il nome di Abraham Lincoln viene pronunciato, si pensa all’uomo che metteva rotaie e che, partendo da umili origini, approdò alla Casa Bianca; al presidente che guidò il Paese durante la Guerra civile, autore del discorso di Gettysburg e vittima dell’assassinio per mano di John Wilkes Booth. La sua figura, alta e slanciata, è spesso associata al caratteristico cappello a cilindro. A Washington, la sua statua troneggia all’interno di una struttura ispirata a un tempio greco, raffigurata anche sul retro della banconota da cinque dollari. Sul fronte della banconota spicca il suo volto, segnato dalle preoccupazioni: guance scavate, barba ordinata e un orecchio destro insolitamente grande. Ma dietro quell’immagine si cela un uomo la cui vita e le cui parole hanno ancora molto da insegnare, soprattutto ai più giovani.
Se Lincoln si fosse limitato alla modesta istruzione formale ricevuta, sarebbe probabilmente rimasto semianalfabeta. Grazie all’incoraggiamento della matrigna Sarah e animato da un’irrefrenabile sete di conoscenza, seppe invece sfruttare al massimo le scarse risorse della capanna nelle praterie, costruendo da autodidatta la propria formazione culturale. Lesse e rilesse la Bibbia, le Favole di Esopo, le opere teatrali e le poesie di Shakespeare, Robinson Crusoe e pochi altri libri, che rimasero per sempre tra i suoi prediletti. «Ogni mente va coltivata», avrebbe dichiarato anni dopo. Attorno ai venticinque anni ampliò le proprie conoscenze studiando legge e, in seguito, per mettersi alla prova e affinare le capacità intellettuali, si immerse nello studio degli scritti di Euclide.
Se per tutti l’esperienza di Lincoln può essere un modello di apprendimento permanente, per i giovani lo è in modo particolare: prese in mano la propria formazione senza disporre di aule, banchi, lavagne o insegnanti, costruendo il sapere con la sola forza della determinazione e della curiosità.
Se a scuola stai incontrando difficoltà, difficoltà vere, prendi in mano la tua formazione. Chiedi sostegno, leggi oltre i confini del programma, segui i tuoi interessi. A qualunque età, possiamo tutti diventare allievi di Lincoln. Lui amava ripetere: «La capacità e il gusto per la lettura danno accesso a tutto ciò che è già stato scoperto dagli altri».
E, in una lettera del 1860, scrisse: «Lavoro, lavoro, lavoro: è questa la cosa principale». Non era soltanto un motto, ma un principio che guidò la sua intera vita. Fin da bambino lavorò nei campi accanto al padre, zappando, piantando, strappando erbacce e raccogliendo il raccolto. Prima di intraprendere la carriera legale — e oltre all’attività di spaccarotaie — Lincoln fu bracciante, battelliere su chiatte, commesso in un emporio, soldato per un breve periodo, proprietario di un negozio e persino postino. Queste esperienze, oltre a guadagnarsi da vivere, gli permisero di entrare in contatto con persone di ogni estrazione. Il tempo trascorso sul battello, in particolare, lo mise per la prima volta di fronte alla realtà dei mercati di schiavi.
Il periodo trascorso come negoziante e postino a New Salem lo mise in contatto diretto con gli abitanti del paese, un’esperienza che arricchì la sua conoscenza delle persone e delle relazioni umane. Allo stesso modo, anche oggi gli adolescenti possono accumulare un patrimonio di esperienze preziose: che si tratti di fare da babysitter, lavare i piatti in un ristorante o tagliare l’erba. Tutti questi lavori contribuiscono a formare la personalità.
Oggi, per i giovani che lavorano fuori casa — soprattutto in mansioni che richiedono concentrazione, come l’edilizia o la ristorazione veloce — esiste un vantaggio che Lincoln non ebbe: non è possibile servire hamburger o versare calcestruzzo restando per ore incollati al telefono. Per quanto monotono o faticoso possa sembrare, il lavoro diretto con un capo, con i colleghi e con i clienti arricchisce le competenze personali e professionali, tracciando un sentiero solido verso il futuro.
Quando si parla di telefoni e comunicazione, molti di noi hanno inviato un’e-mail o pubblicato un post sui social che hanno subito rimpianto. È come gettare un fiammifero su una pozza di benzina: in un attimo si rischia di compromettere rapporti, ferire gli altri e, spesso, anche se stessi.
Lincoln aveva una strategia che potrebbe tornarci utile. Dopo la sua morte, furono ritrovate diverse lettere che lui stesso definiva «infuocate»: pagine intrise di rabbia, scritte a qualcuno ma mai spedite. Tra queste, una era indirizzata al generale Meade, comandante delle forze unioniste a Gettysburg, con cui Lincoln riteneva di aver perso l’occasione di infliggere un colpo decisivo ai confederati di Robert E. Lee, già duramente provati e intrappolati tra l’esercito unionista e il fiume Potomac, ingrossato dalle piogge. Nella lettera, Lincoln rimproverava duramente Meade per aver lasciato sfuggire l’occasione di porre fine al conflitto; poi, però, ripose la missiva in un cassetto. Capì che il Nord aveva bisogno di una vittoria non offuscata da critiche o rimpianti.
Ecco perché, prima di inviare a un amico un messaggio carico di accuse o di pubblicare online uno sfogo rabbioso, vale la pena rileggerlo, metterlo da parte per qualche ora e riprenderlo in mano più tardi. Se, a mente fredda, appare chiaro che le parole rischiano di causare più danni che benefici, segui l’esempio di Lincoln: eliminale o non spedirle.
Oggi, più che in passato, un numero crescente di adulti e adolescenti riceve cure per la depressione, mentre l’ansia raggiunge livelli epidemici, soprattutto tra i giovani in cerca di uno scopo e di un senso nella vita. Abraham Lincoln conobbe queste ombre per tutta l’esistenza, soffrendo di quella che allora veniva chiamata “malinconia”.
Tra le radici del suo dolore vi furono un’infanzia segnata dalle privazioni, la morte della madre quando aveva solo nove anni, la perdita dell’adorata sorella maggiore a ventun anni e, più tardi, la scomparsa di due figli. In due momenti della giovinezza arrivò a contemplare il suicidio, tanto che gli amici sentirono il bisogno di sorvegliarlo. Un testimone dell’epoca disse di lui: «La sua malinconia gli colava addosso mentre camminava». Come riuscì quest’uomo, destinato a diventare il sedicesimo presidente degli Stati Uniti, a risalire dalle oscure profondità in cui talvolta precipitava, in un’epoca priva di antidepressivi e di terapeuti professionisti? Secondo lo scrittore Rich Barlow, furono soprattutto i legami umani a sostenerlo: amicizie autentiche, come quelle che da giovane gli impedirono di togliersi la vita, lo aiutarono a riemergere dagli abissi interiori. Oggi come allora, ricorda Barlow, la connessione con gli altri resta un’ancora fondamentale per contrastare la disperazione e lo sconforto.
Barlow sottolinea anche come l’ambizione di Lincoln e il costante impegno per migliorare se stesso fossero armi decisive nelle sue battaglie interiori. Il suo senso dello scopo costituiva la roccia a cui si aggrappava quando gli umori neri lo assediavano. Con l’età — e ancor più durante la presidenza in tempo di guerra — Lincoln trovò sollievo dalla sua oscurità personale incoraggiando amici e collaboratori disperati con umorismo e gentilezza. Aveva compreso che, quando si sollevano gli animi degli altri, inevitabilmente si solleva anche il proprio.
In una recensione del libro di Joshua Shenk La malinconia di Lincoln, emerge un consiglio che resta sorprendentemente attuale. Scrivendo alla figlia di un ufficiale dell’Illinois caduto in battaglia, Lincoln osservò: «In questo triste mondo nostro, il dolore colpisce tutti; e per i giovani arriva con l’agonia più amara, perché li coglie impreparati. I più anziani hanno imparato ad attenderlo sempre».
Ma aggiunse anche una nota di speranza, maturata dall’esperienza: «Siate sicuri di essere felici di nuovo. Sapere questo, che è certamente vero, vi renderà un po’ meno infelici ora. Ho abbastanza esperienza per sapere ciò che dico». Lincoln conosceva a fondo la depressione — e sapeva anche come attraversarla per tornare alla luce. «Siate sicuri di essere felici di nuovo». E per quei giovani che soffrono e che stanno prendendo in considerazione una soluzione disperata ai loro problemi, in quelle sette parole si cela forse la lezione più preziosa che Lincoln abbia lasciato.