L’India supera la Cina nel mercato statunitense

di Antonio Graceffo per ET Usa
8 Agosto 2025 15:55 Aggiornato: 8 Agosto 2025 15:55

L’India ha superato la Cina come principale esportatore di smartphone verso gli Stati Uniti, segnando un cambiamento rilevante nelle catene di approvvigionamento internazionali e infliggendo un duro colpo economico al Partito comunista cinese. Il sorpasso è dovuto in larga parte alla decisione di Apple di spostare parte della produzione fuori dalla Cina, nel contesto delle crescenti tensioni commerciali tra Washington e Pechino e dell’inasprimento dei dazi reciproci. Questo trasferimento sta garantendo all’India un notevole slancio economico, mentre il regime cinese subisce perdite in termini di entrate, esportazioni e quote di mercato.

Restano ipotesi su un possibile accordo negoziato tra il presidente Trump e il cinese Xi Jinping per porre fine alla guerra commerciale, ma permangono dubbi sulla volontà di Pechino di rispettare intese di questo tipo. In ogni caso, l’incertezza e l’instabilità hanno già indotto molte aziende straniere a ridurre la propria dipendenza dalla Cina. L’aumento dei dazi statunitensi del 145 per cento sulle merci cinesi, a cui Pechino ha risposto con un’imposta del 125 per cento, ha accelerato ulteriormente questa tendenza, spingendo le imprese a reindirizzare investimenti e filiere verso altri poli manifatturieri, come India e Vietnam.
Nel secondo trimestre dell’anno, il 44 per cento degli smartphone importati negli Stati Uniti proveniva dall’India, in forte crescita rispetto al 13 per cento dell’anno precedente, secondo un’indagine della società di ricerca Canalys. Nello stesso periodo, la quota cinese è scesa al 25 per cento, retrocedendo al terzo posto dietro al Vietnam.

Apple ha rapidamente ampliato la propria capacità produttiva in India, destinando oggi la maggior parte delle esportazioni verso il mercato statunitense. Sebbene i dispositivi realizzati in Cina godano di alcune esenzioni dai dazi reciproci imposti da Trump, devono comunque affrontare un’imposta minima del 20 per cento. Alcuni osservatori sostengono che la società resti in parte legata alla consolidata base produttiva cinese: ciò è vero, ma lo spostamento rappresenta comunque una perdita significativa per il Partito comunista. La produzione di iPhone in India è raddoppiata, raggiungendo i 14 miliardi di dollari l’anno, e si prevede che tocchi i 34 miliardi nel biennio 2026-2027. Ogni dollaro di fatturato trasferito in India comporta per la Cina una perdita diretta, con ricadute sugli investimenti esteri, sulla produzione industriale, sulle esportazioni e sull’occupazione.
Pechino ha cercato attivamente di ostacolare l’espansione di Apple in India. Circa un anno fa, le autorità cinesi avevano ritardato l’autorizzazione all’importazione di macchinari necessari per la produzione di iPhone; più di recente, la dogana cinese ha trattenuto senza limiti di tempo apparecchiature fondamentali per l’adeguamento delle linee di montaggio del prossimo modello iPhone 17. Inoltre, il governo ha fatto pressioni su Foxconn affinché ritirasse oltre 300 ingegneri e tecnici cinesi inviati in India per il trasferimento di competenze e la formazione del personale locale. In un atto di natura puramente punitiva, la Cina ha anche imposto restrizioni all’esportazione di magneti indispensabili per la produzione di veicoli elettrici. Il calo delle esportazioni di telefoni è già percepibile in province cinesi come Guangdong e Henan, sedi di importanti stabilimenti per la produzione di iPhone, che ora rischiano contrazioni occupazionali e rallentamenti della crescita industriale. Tuttavia, lo spostamento della produzione verso l’India è soltanto una parte degli effetti più ampi che la guerra commerciale sta avendo sull’economia cinese. Le stime attuali indicano che entro il 2027 le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti potrebbero ridursi fino a 485 miliardi di dollari.

Sebbene le vendite verso il mercato statunitense incidano solo per circa tre punti percentuali sul prodotto interno lordo della Cina, l’impatto sull’occupazione è molto maggiore. Secondo Goldman Sachs, fra 10 e 20 milioni di lavoratori cinesi sono impiegati in settori orientati alle esportazioni dirette agli Stati Uniti. Perdere l’accesso a quel mercato rappresenta una sfida cruciale per la Cina, poiché nessun altro Paese eguaglia la capacità di assorbire prodotti ad alto valore aggiunto o il potere d’acquisto statunitense. Negli ultimi anni, Pechino ha cercato di dirottare parte delle esportazioni verso mercati come la Russia, ma la strategia mostra limiti evidenti: i consumatori russi acquistano prevalentemente beni di minor valore e il volume del mercato è assai inferiore. La Russia, inoltre, non è in grado di assorbire flussi commerciali paragonabili a quelli statunitensi. A peggiorare la situazione, i margini di profitto sui prodotti venduti nei mercati emergenti sono più bassi rispetto a quelli destinati agli Stati Uniti. La Cina resta inoltre fortemente dipendente dalle tecnologie statunitensi, in particolare dal software e dai semiconduttori avanzati, un punto di vulnerabilità che non può essere colmato con la sola diversificazione dei mercati. La perdita di partnership con aziende straniere come Apple riduce anche il trasferimento tecnologico e rischia di rallentare in modo significativo il progresso tecnologico del Paese.

La questione di fondo è capire se questi cambiamenti rappresentino una fase temporanea o una trasformazione strutturale permanente. Diversi fattori inducono a pensare alla seconda ipotesi. Anzitutto, i miliardi già investiti nelle infrastrutture produttive in India costituiscono costi irrecuperabili, rendendo economicamente svantaggioso tornare indietro. In secondo luogo, le tensioni tra Stati Uniti e Cina hanno natura strutturale, originate dalla competizione di lungo periodo per la supremazia tecnologica e geopolitica, e non da meri squilibri commerciali contingenti. Tale confronto difficilmente troverà una soluzione definitiva, mentre i rapporti bilaterali continuano a deteriorarsi.

Per le multinazionali, la gestione del rischio è diventata una priorità. Dopo le gravi interruzioni nelle catene di fornitura durante la pandemia di Covid-19 e la guerra commerciale tra Washington e Pechino, molte aziende privilegiano oggi la resilienza rispetto alla riduzione dei costi. Tuttavia, la burocrazia, le restrizioni all’importazione e normative imprevedibili hanno frenato il pieno impegno delle grandi imprese internazionali in India. Ciò non significa che torneranno in Cina: alcune potrebbero spostarsi in Vietnam, altre confidare in un miglioramento della politica industriale indiana, e molte hanno probabilmente già concluso che affrontare la complessità burocratica dell’India sia un prezzo accettabile pur di sganciarsi dal mercato cinese.

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