Il caso Nvidia tra pressioni geopolitiche e integrità tecnologica

di redazione eti/Bill Pan
7 Agosto 2025 12:14 Aggiornato: 7 Agosto 2025 15:14

Negli ultimi giorni, Nvidia è tornata al centro di un acceso dibattito sulle presunte vulnerabilità di sicurezza nei propri chip, a seguito di una convocazione da parte delle autorità cinesi. Il fulcro della questione riguarda l’accusa, finora priva di prove concrete, di porte di accesso nascoste o interruttori di spegnimento remoto integrati nei processori grafici H20 venduti nel mercato cinese. In un post del 5 agosto, il direttore della sicurezza David Reber Jr. ha riaffermato l’integrità dei propri processori, sottolineando come l’inserimento di porte di accesso nascoste o di interruttori di spegnimento sia in totale contraddizione con i principi progettuali adottati da oltre trent’anni. Secondo Reber «non esistono porte nascoste segrete ‘positive’, ma solo vulnerabilità pericolose da eliminare». I chip Nvidia sono progettati per non presentare alcun punto singolo di vulnerabilità che possa essere sfruttato per bloccare un sistema. E ha aggiunto che «non è questo il momento di abbandonare una formula che ha dimostrato di essere efficace».

A metà luglio, Nvidia aveva annunciato di aver ricevuto rassicurazioni dal governo degli Stati Uniti sull’ottenimento della licenza necessaria per riprendere la vendita dei chip H20 in Cina. Questi processori, meno potenti rispetto ai modelli di punta, sono stati sviluppati appositamente per rispettare i controlli statunitensi all’esportazione, volti a limitare lo sviluppo dell’intelligenza artificiale militare cinese e a preservare la leadership americana in questo settore strategico. La vendita degli H20 era stata sospesa ad aprile, nel pieno dello scontro commerciale tra Washington e Pechino. Successivamente, un accordo preliminare ha permesso agli Stati Uniti di autorizzare la ripresa delle esportazioni e alla Cina di riavviare le spedizioni di magneti e terre rare.

Parallelamente, negli Stati Uniti, sono state avanzate proposte legislative bipartisan che mirano a integrare funzioni di localizzazione nei chip, al fine di contrastare il contrabbando e l’uso non autorizzato da parte di attori stranieri. Tali iniziative, pur nate da esigenze di sicurezza, sollevano interrogativi riguardo alla possibile introduzione di meccanismi hardware, come gli interruttori di spegnimento, che potrebbero minare la fiducia degli utenti e la competitività del settore tecnologico. La situazione è stata paragonata a un’auto acquistata con un telecomando che consenta al concessionario di azionare a distanza il freno a mano nel caso decidesse di impedire la guida. Si tratta di una misura irragionevole, che rischierebbe di danneggiare in modo irreparabile gli interessi economici e di sicurezza nazionale degli Stati Uniti.
A supporto di questa posizione, Reber ha ricordato l’iniziativa “Clipper Chip” degli anni Novanta, promossa dalla National Security Agency durante la presidenza Clinton. Si trattava di un sistema di crittografia per telefoni, basato su un microchip con chiave integrata, di cui una copia era conservata per l’uso governativo autorizzato. Il progetto, attivo dal 1993 al 1996, fu abbandonato a causa dell’opposizione pubblica e delle criticità tecniche emerse. Reber ha concluso sottolineando come i governi dispongano di numerosi strumenti per tutelare le nazioni, i consumatori e l’economia, ma che indebolire intenzionalmente infrastrutture critiche non debba mai far parte di tali misure.


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