L’Europa e gli Stati Uniti sono diventati significativamente più esposti a possibili interruzioni delle forniture provenienti dalla Repubblica Popolare Cinese in settori strategici come l’energia, la sanità e le tecnologie digitali. Questo l’allarme lanciato dalla Banca Centrale Europea il 5 agosto, che sottolinea come anche piccoli shock potrebbero generare costi economici sproporzionati: «Sebbene le dipendenze critiche rappresentino una quota marginale del commercio totale e degli input produttivi, un’interruzione della loro fornitura comporterebbe costi economici rilevanti a causa della loro scarsa sostituibilità» hanno scritto gli economisti della Bce nell’introduzione a un bollettino pubblicato il 5 agosto.
La globalizzazione iniziata a partire dagli anni Novanta ha reso il regime comunista cinese dominante nella produzione di minerali strategici, mentre regioni come Europa e Stati Uniti ne sono diventate fortemente dipendenti. «Queste dipendenze creano vulnerabilità strategiche, poiché la loro interruzione da parte di rivali geopolitici può comportare costi economici significativi» dice la Bce, che nella sua analisi sostiene che circa il 30% delle importazioni strategiche dell’Europa dalla Cina – tra cui terre rare, antibiotici ed elettronica di consumo – rappresenti un punto di vulnerabilità grave, soprattutto perché esistono poche alternative. Negli Stati Uniti la situazione è ancora più critica, perché gli Usa dipendono per circa il 40% dalla Cina per materiali di importanza strategica.
La Repubblica Popolare Cinese ha invece drasticamente ridotto la propria dipendenza da input occidentali, grazie a politiche industriali come la “Made in China 2025”. L’attuale dominio cinese è particolarmente marcato nelle materie prime strategiche, è fatto ormai noto: la Cina raffina circa il 73% del cobalto mondiale, il 40% del litio e oltre il 95% delle terre rare; tutte risorse indispensabili per i veicoli elettrici, i sistemi di energia rinnovabile e le tecnologie di difesa avanzate.
Da notare come la Bce dica che le conseguenze economiche di uno shock sulle forniture potrebbero essere gravi, nonostante questi beni rappresentino solo una piccola frazione del commercio.
Secondo le stime del modello della Bce, le perdite sulla domanda finale nell’area euro sono aumentate di circa dieci volte dal 1995, raggiungendo lo 0,41%, mentre negli Stati Uniti si attestano allo 0,32%. Le perdite sulla domanda finale si riferiscono agli impatti negativi sulla spesa complessiva di famiglie, imprese e governi, e un calo rappresenta un duro colpo alla produzione e al consumo a livello economico. «I decisori politici si trovano quindi di fronte a un dilemma: rafforzare la resilienza delle catene di approvvigionamento o preservare i benefici dell’apertura commerciale», hanno scritto gli economisti della Bce. Qui non si può fare a meno di notare come il «dilemma» ormai esista quasi solo nella mente di una certa categoria di economisti, mentre per una buona parte degli analisti che osservano i fatti (e per una sempre crescente parte dell’opinione pubblica occidentale) il quadro è chiaro: la “globalizzazione”, così com’è, non funziona.
Gli Stati Uniti hanno adottato diverse contromisure per ridurre la dipendenza dalle catene di approvvigionamento cinesi, già a partire dalla prima amministrazione Trump: nel settembre 2020, Donald Trump ha emesso un ordine esecutivo che dichiarava un’emergenza nazionale per la dipendenza degli Stati Uniti da minerali come terre rare, gallio e grafite, e ha incaricato diverse agenzie federali di accelerare i permessi, indagare sulle vulnerabilità, imporre dazi o quote e incrementare la capacità di estrazione e lavorazione interna. Una linea politica proseguita anche durante l’amministrazione Biden: il Chips and Science Act firmato da Biden rappresenta un passo significativo nel rafforzamento del settore dei semiconduttori in America, con i suoi 52 miliardi di dollari in sussidi e incentivi fiscali per incrementare la produzione e la ricerca sui semiconduttori negli Stati Uniti, con l’obiettivo di ridurre la dipendenza da produttori stranieri.
Ulteriori robuste politiche protettive sono in fase di adozione dalla seconda presidenza Trump, tra cui un ordine esecutivo di marzo che ha accelerato la produzione interna di litio, cobalto e altri minerali strategici, sulla base dell’imminente pericolo per la sicurezza nazionale rappresentato dalla carenza interna in questo settore industriale. Il Pentagono ha inoltre introdotto nuovi finanziamenti e partenariati pubblico-privati per sviluppare impianti di produzione di magneti a base di terre rare e diversificare i fornitori di componenti per missili e aerospaziali.
Gli Stati Uniti stanno insomma velocemente recuperando, e si spera che l’Europa ne segua l’esempio. La dittatura comunista cinese è già in grave crisi per conto suo, come questo giornale riporta regolarmente. Ma resta un pericoloso nemico sia del popolo cinese sia dell’Occidente, che per troppi anni ne ha dissennatamente favorito prima la sopravvivenza e poi lo strapotere industriale. In questo senso, si deve però rilevare quanto l’aria sia cambiata, di recente: uno dei pochi punti su cui Donald Trump e Ursula von der Leyen si trovano completamente d’accordo è che la dipendenza industriale dalla Cina sia diventata insostenibile e pericolosa.